Tre grandi figure di “outlaws”, che a un mezzo di comunicazione dalle notevolissime potenzialità come quello cinematografico non potevano certo sfuggire. Russell Crowe – che in moltissimi ancora ricordano come Massimo Decimo Meridio, «comandante dell’esercito del Nord, generale delle legioni Felix, servo leale dell’unico vero imperatore Marco Aurelio, padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa e avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra» (Il gladiatore, 2000) – nei panni di Robin Longstride o, meglio, “Robin of the Hood” per Ridley Scott (Robin Hood, 2010): visti i precedenti di entrambi, ce lo si poteva aspettare. Johnny Depp calato con armi (letteralmente) e bagagli negli anni Trenta, in piena grande depressione, e soprattutto nel personaggio del celebre gangster John Dillinger – senza alcuna smorfia o mossetta alla Jack Sparrow (Pirati dei Caraibi, 2003-2017) – davanti alla macchina da presa (digitale) di Michael Mann (Nemico pubblico – Public Enemies, 2009): molto più di una semplice bella accoppiata per il grande schermo, un classico “istantaneo”. Brad Pitt – classe 1963, nativo di Shawnee, in Oklahoma – alle prese con il ruolo del fuorilegge del Missouri Jesse James a partire dalla sceneggiatura (adattata dall’omonimo libro di Ron Hansen del 1983) e per la regia (decisamente malickiana, nel senso migliore del termine) di Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007): ed eccolo, giusto dieci anni fa, a conclusione della 64ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, tenere tra le mani la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (per alcuni concessagli fin troppo generosamente).
Un incipit con quattro minuti di sequenze e frammenti di vita e una voce fuori campo a commentarli: «Stava varcando la soglia della mezza età e all’epoca viveva in un bungalow a Woodland Avenue. Si sistemava su una sedia a dondolo e la sera fumava un sigaro intero mentre sua moglie si asciugava le mani rosee in un grembiule e lo aggiornava felice sui loro due bambini. I suoi bambini conoscevano le sue gambe, il pizzicore dei suoi baffi sulle loro guance. Non sapevano come il padre si guadagnasse da vivere, né perché dovessero trasferirsi così spesso. Di loro padre non conoscevano nemmeno il nome. Sul registro cittadino figurava come Thomas Howard. E andava ovunque senza essere riconosciuto, e pranzava con i bottegai e i commercianti di Kansas City, presentandosi come allevatore di bestiame o investitore in materie prime, un uomo ricco e agiato che sapeva essere alla mano. Aveva due fori di proiettile mai del tutto guariti nel petto e un altro nella coscia. Gli mancavano due falangi del dito medio sinistro e stava bene attento che nessuno notasse quella mutilazione. Soffriva anche di un’infiammazione cronica delle palpebre che lo obbligava a battere le ciglia più del normale, come se trovasse la creazione leggermente più intensa di quanto potesse sopportare. Le stanze parevano più calde quando c’era lui. La pioggia cadeva più dritta. Gli orologi rallentavano. I suoni erano amplificati. Si considerava un fedele sudista e un guerrigliero in una Guerra Civile che non era mai finita. Non provava rimorso né per le sue rapine né per i 17 omicidi di cui rivendicava la responsabilità. Aveva visto passare un’altra estate a Kansas City, nel Missouri, e il 5 settembre dell’anno 1881 compiva 34 anni».
Ma Jesse James (alias Brad Pitt) è solo il primo dei due protagonisti che si spartiscono il lungo titolo di questo film (presentato in concorso in una versione della durata di 4 ore poi mai più vista: il DVD attualmente in circolazione ne contiene infatti una da 160 minuti): a ogni buon conto, l’altro è Robert Ford (il “codardo” che il 3 aprile 1882 fredderà Jesse con un colpo alla nuca usando la pistola da lui stesso regalatagli poco prima), interpretato da quel Casey Affleck che – oggi fresco di Premio Oscar per il migliore attore protagonista per Manchester by the Sea (2016) – già dieci anni fa dava prova di un carisma e di un talento da vendere (di certo in quantità molto maggiori rispetto al fratello Ben, di soli tre anni più anziano) e riconosciuti dall’Academy con una candidatura per il migliore attore non protagonista proprio per questo ruolo.
Ma restando in tema di Oscar e di nomination, cosa dire di quanto già non sia stato scritto dell’accuratissimo lavoro del direttore della fotografia, il veterano inglese Roger Deakins (abituale collaboratore dei fratelli Coen dai tempi di Barton Fink – È successo a Hollywood, nonché coinvolto in titoli quali – tra gli altri – Le ali della libertà, Kundun, A Beautiful Mind, Nella valle di Elah, Revolutionary Road, Skyfall e l’imminente Blade Runner 2049), il quale ha avuto modo di citare l’iniziale sequenza notturna dell’arrivo del treno su cui si abbattono le mire della banda dei fratelli James come uno dei punti più alti della sua carriera? Un “mago della luce” che ha certo trovato terreno fertile per le sue idee (a partire dallo studio delle soluzioni adottate da Néstor Almendros per il malickiano I giorni del cielo) su un set guidato da quell’Andrew Dominik che era stato a sua volta coinvolto nella seconda unità di ripresa (sebbene non accreditato ma solamente citato nei ringraziamenti finali) durante la lavorazione di The New World – Il nuovo mondo (2005)… Un dolente quanto epico scavo psicologico di coppia nelle spoglie di un atipico western a metà strada tra tradizione e modernità da (ri)vedere e (ri)valutare.