Francia. Seconda guerra mondiale. Roman e Anna sono due genitori premurosi e attenti ai loro quattro figli. Quando l’avanzata dei tedeschi in Francia porterà a un inasprimento dei provvedimenti nei confronti degli ebrei, Roman si troverà costretto a separarsi dai suoi figli per aiutarli a mettersi in salvo. Il buonsenso lo spingerà a separare la numerosa famiglia per sfuggire alla probabile cattura dei nazisti. Joseph e Maurice, i due figli più piccoli, inizieranno un lungo viaggio pieni di rischi, per salvarsi la vita e fuggire alla cattura. Un viaggio nel quale non dovranno mai ammettere di essere ebrei.



È Natale anche per il nazismo, che si trasforma in un’impotente macchina da guerra e di sterminio che nulla può di fronte al coraggio, alla determinazione e all’astuzia di due ragazzini. Happy end annunciato per un film ispirato a una storia vera che la regia di Christian Duguay riesce a trasformare in una storia ben poco credibile o, in altre parole, in una rassicurante fiction natalizia. Nobile l’intento e la volontà di tornare a parlare di olocausto, ma il tema non basta a rendere dignità a un’operazione stucchevole e ingenua, semplificata nei pensieri di un bambino. 



Sarà il doppiaggio innaturale, sarà il romanzato romanzo di partenza firmato Joseph Joffo, sarà la già poco credibile “vera” storia dei due ragazzini, sarà la modesta direzione di Christian Duguay, regista dell’inutile seguito di Belle&Sebastien, o sarà l’insieme di queste cose. Fatto sta che il risultato di Un sacchetto di biglie è trascurabile, a tratti persino fastidioso.

Quando la famiglia “perfetta”, oppressa dall’avanzata minacciosa dei nazisti, dovrà separarsi, lo spettatore vivrà l’unico momento davvero intenso e ben interpretato del film, che il trailer non può che valorizzare. Vediamo così papà Roman (interpretato da Patrick Bruel, unico volto noto del cast protagonista), attraverso un’infinita e insensata serie di violenti ceffoni, violare per sempre l’ingenuità infantile di Joseph, rigato da lacrime di terrore. Sarà il suo modo, lungimirante, di prepararlo al peggio, all’inizio di un viaggio incerto che potrà perfino consegnarlo, insieme al fratello Maurice, nelle oppressive braccia dei tedeschi.



Un viaggio drammatico raccontato come un’eroica avventura per ragazzi, che forse apprezzeranno per facile scorrevolezza. Si sceglie di banalizzare, trasformando la verità storica in una fiaba anestetica, che preserva dal male e dal dolore sulla pelle. Mentre cala la paura e la tensione, cresce il senso di smarrimento per un insieme sconclusionato e irrealistico di scene, viziate da repentini sbalzi di recitazione e d’atmosfera. 

Se la scelta di mettersi nei panni di un bambino, strada virtuosa già percorsa da ben altri autori, potrebbe risultare interessante, non altrettanto può dirsi della scelta di semplificazione psicologica che allontana il film da qualunque pretesa autoriale. Duguay sembra non trovare il registro narrativo più adatto per un pubblico che rimane senza forma, confezionando una storia bidimensionale che non offre alcuno spessore, tanto meno interpretativo.

Se guardiamo, con sguardo meno critico, alla rilettura cinematografica, ci sembra di poter relegare il film nell’ambito delle proiezioni educative, per famiglie, per ragazzi o classi scolastiche. Inutile dirlo: non tutti si chiamano Roberto Benigni.