Oltre la satira o la farsa, dietro le opere di Armando Iannucci c’è una precisa visione della politica come preciso genere cinematografico, declinato all’umorismo. L’autore scozzese infatti dalle serie tv “The Thick of It a Veep” (la seconda la versione americana, in pratica della prima, che generò anche il film In the Loop) ha sempre veicolato la sua idea del potere attraverso personaggi o situazioni sul paradossale filo dell’idiozia. Non fa eccezione Morto Stalin se ne fa un altro, il suo nuovo film.
Come il titolo (anche l’originale The Death of Stalin) fa intuire, il film si ambienta nell’Unione Sovietica dal momento in cui Stalin muore: il gruppo più potente e temibile del comitato centrale del Pcus si raduna attorno al cadavere per capire come gestire la transizione. Viene scelto Malenkov ma ognuno dei protagonisti tramerà per la propria corrente politica.
Se la stupidità – o la totale inadeguatezza – dei suoi personaggi tipici crea effetti di sublime imbarazzo comico, in Morto Stalin se ne fa un altro Iannucci (che scrive il film con David Schneider, Ian Martin e Peter Fellows da un graphic novel di Nury e Robin) descrive un potere talmente illimitato da sfociare nel suo opposto, nella paranoia del potere, nella sconfitta di ogni possibile potere attraverso la propria stupidità. E così, con humour freddo e acre, a tratti irresistibile nel suo giocare con imbarazzi e inceppi della storia, ma anche lucido nel mostrare le conseguenze disastrose di quel teatrino di burattini ciechi, Iannucci costruisce un racconto macabro e ilare sul lato animalesco della storia, sulla tirannia come perversione della normalità ma anche sulla politica come motore della storia.
Iannucci conferma le doti di scrittore umoristico e satirico che gli sono riconosciute, ma mostra anche altre doti, che nel suo lavoro in tv forse venivano più trascurate: per esempio, il sottile gioco coreografico della regia nella gestione dei personaggi e degli attori degli spazi – visto che il potere e la politica sono anche prese di posizioni in termine fisico, come nella grandiosa scena del funerale -, la composizione della scena in chiave comica, l’uso del fuori campo.
E ovviamente la straordinaria resa degli attori: da Jeffrey Tambor a Michael Palin (che evidenza il tocco Monty Python del film), passando per Simon Russell Beale, è una sfilata di facce, volti, tic che più di ogni caratterizzazione sanno dire che faccia ha un potente e che il suo status – di solito in Urss impunibile e spaventato – passa per le sue reazioni mimiche.