È bene partire dalla didascalia iniziale (la menzione alla travagliatissima lavorazione) e finale (la dedica a due – tra gli altri – dei mancati Chisciotte, Jean Rochefort e John Hurt, morti nel frattempo) per cercare di stabilire l’esatto valore di quell’ironico e divertito cortocircuito metanarrativo che è L’uomo che uccise Don Chisciotte del regista e sceneggiatore Terry Gilliam (1940). Era infatti dall’ormai lontano 1989 (anno dell’uscita a livello internazionale del suo Le avventure del Barone di Munchausen) che l’autore accarezzava l’idea di portare sul grande schermo un adattamento del celebre capolavoro di Miguel de Cervantes: «Io sono colui per il quale sono espressamente riservati i pericoli. Io sono Don Chisciotte della Mancia, venuto per far rivivere il perduto ordine della cavalleria». Conviene quindi non attardarsi troppo alla ricerca di quali altre potenziali pellicole (che avrebbero potuto essere) si trovino oltre i bordi dei fotogrammi di quella, l’unica, oggi finalmente in sala per poter godere appieno il “miracolo” di un film «folle e innamorato», che lascia intravedere più di una testimonianza sul senso del lavoro (nel cinema) perseguendo una propria (caparbia) visione e non pochi spunti provenienti da tentativi di illustri predecessori lanciatisi nella singolar tenzone (Orson Welles in primis).



Occorre da subito sgombrare il campo da fraintendimenti: chi si fosse fatto un’idea del materiale in questione a partire da quanto è dato di vedere e ascoltare in quell’eccezionale “unmaking of” che è Lost in La Mancha (2002), potrebbe restare deluso dall’esito finale: diciotto anni sono lunghi anche solo scorrendoli su un calendario, figuriamoci nella vita e carriera di una persona, sia pure un artista di estro e un cineasta di razza come il quasi settantottenne Gilliam. Ecco perché il miglior viatico per un primo attraversamento dei 132 minuti di quest’ultima fatica è dato da un paio di sue affermazioni all’anteprima romana: «Nel 1989 pensai del libro che era impossibile da adattare, così grande e ricco. La sceneggiatura nel tempo è diventata migliore, perché se ne hai molto ti annoi delle tue idee. Io mi considero un mistico quindi penso che il film si sia scritto da solo, però è uno scrittore molto lento. […] Questo film non poteva esistere nel 2000 perché un film è qualcosa che esiste in un preciso tempo e grazie a specifici gruppi di persone». Quindi l’invito è a guardare e gustare appieno ciò che c’è (e che poteva anche non essere), alla luce della cosiddetta maledizione di Don Chisciotte, secondo cui i tentativi di adattarne le avventure sono votati al fallimento (che alcuni addirittura estendono anche a chi opera questi tentativi, destinato a diventare Chisciotte, impossibilitato a trasformare la fantasia in realtà). 



Come scriveva su “Esquire” nel 1969 François Truffaut, «[f]are un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come se si trattasse di un mazzo di fiori, le idee che si provano in questo momento o in modo permanente. Il nostro film migliore è forse quello in cui riusciamo a esprimere, più o meno volontariamente, sia le nostre idee sulla vita che le nostre idee sul cinema». Ecco perché, comunque la si pensi sull’opera in questione, nessuno può certo mettere in discussione il fatto che L’uomo che uccise Don Chisciotte esprime un’idea sulla vita e sul cinema firmate Terry Gilliam. 



Sull’ultima inquadratura, rimane infatti in sala una sola certezza, dopo che quel profilo inizia a perdersi nel sole del tramonto: «Quijote vive!». Peter Bradshaw (“The Guardian”, 18 maggio) afferma che «[n]on sarà il capolavoro di Gilliam, ma è un film caratterizzato da briosità, innocenza e incanto e un’iniezione di fiducia per chiunque abbia a cuore la creatività del suo autore. L’intelligenza e la gioia che mette nel suo lavoro brillano in ogni fotogramma e le sue stranezze sono un piacere, visto ormai che gran parte del cinema mainstream sembra essere stato creato tramite un algoritmo. Che posto noioso sarebbe il mondo senza Terry Gilliam». 

Si badi infatti che dei tre “Don” rappresentati, solo per l’ultimo – un ormai ex regista pubblicitario – sono mostrati al pubblico dei giganti mentre per gli altri non si vedono che mulini a vento e pale eoliche… In uno dei film più recenti dell’ex Monty Python (idealmente molto prossimo a quest’ultimo), Parnassus replica così al diavolo: «Da qualche parte nel mondo in questo momento qualcun altro sta raccontando una storia […] [e] sta sostenendo l’universo. Ecco perché siamo ancora qui. Non si può fermare il racconto della Storia». Grazie (ancora), señor Gilliam!