Tra gli autori capaci di un cinema che sappia suscitare “sogni, fantasie, delicati sentimenti” in modo “ricco d’intensità, di suggestione e di fascino” (virgolettato tratto dalla definizione dell’aggettivo “poetico” del dizionario Treccani), Federico Fellini ha certamente un posto di rilievo. Nel venticinquesimo anniversario della scomparsa celebriamo questo lato del suo modo di raccontare le umane vicende, rimasto tanto impresso negli occhi e nel cuore di milioni di spettatori che il suo cognome aggettivato – felliniano – ha finito per diventare l’antonomasia per “poesia nel cinema”, privilegio concesso solo ai grandi.
Essendo la poesia una creazione letteraria fondata, principalmente, su figure retoriche che ben funzionano anche in campo visivo – la metafora; alcune figure di tipo metonimico, come gli emblemi e le allegorie; la sineddoche, cioè la parte per il tutto o viceversa -, il cinema, fatto per immagini, sembrerebbe allora perfetto per narrare qualcosa in termini poetici. Cioè per far scaturire, da poche immagini ad arte concatenate tra loro, un ventaglio di significati – come appunto le figure retoriche della poesia scritta – che rimandino dall’immediato della storia narrata fino ai più remoti concetti astratti da essa suscitati.
Invece il cinema si è affermato prevalentemente come mezzo di narrazione classico, più paragonabile al romanzo ottocentesco che al testo poetico, avendo l’interesse delle major hollywoodiane per l’intrattenimento e lo spettacolo prodotto una sorta di lock-in di carattere socio-culturale. La settima arte ha perciò percorso una strada più prosaico-descrittiva, poetica solo in via incidentale. Ma fuori da questo tracciato, principale fino a tutti gli anni Cinquanta sia in termini storici che quantitativi, qualcos’altro ha avuto modo di emergere.
Nell’ambito delle avanguardie europee degli anni Venti e Trenta si è sviluppata in Francia una corrente cinematografica definita infatti del “realismo poetico”, poiché fondata sulla messa in scena in sintesi dinamica delle due istanze da sempre presenti nel cinema francese: il realismo e la poesia. Era cinema che trattava passioni infelici, destini beffardi e avversi, storie di ordinarie sconfitte filmate con immediatezza e spontaneità, costruite su dialoghi rarefatti e atmosfere grigie, nebbiose. Principali interpreti furono lo sfortunato Jean Vigo, morto giovane con un solo – importantissimo – film all’attivo (L’Atalante, 1934); e poi il grande Jean Renoir, che da quell’esperienza di particolare taglio stilistico-visivo ha dato, non unico ma fondamentale apporto, il via alla modernità del cinema. Modernità, intesa in sintesi come tipica del cinema che privilegia lo sguardo sul racconto, alla quale certamente afferisce anche il nostro Federico Fellini.
Questi, dopo un decennio come sceneggiatore nell’entourage dei maestri Rossellini e Lattuada, firma la sua prima regia autonoma nel 1952 con Lo Sceicco Bianco, dimostrando già un particolare talento visivo, inaugurando anche quella propensione al fantastico, parafrasato da elementi autobiografici, che sarà la costante del suo cinema. L’idea del Fellini autore poetico prende più chiara forma col secondo film, I Vitelloni (1953), amara commedia in odore di neorealismo sulle esistenze immobili e provinciali di un gruppo di amici, per affermarsi con forza nel successivo La Strada (1954). Questo, seppur appaia oggi un po’ sopravalutato, mantiene intatta tutta la sua carica emotiva, il suo pudore sincero e poetico nel ritrarre i singolari personaggi di Gelsomina e Zampanò, emblematici artisti di strada di un mondo che andava scomparendo già allora. Meritati il successo di pubblico e l’Oscar al miglior film straniero (il primo di quattro per Fellini), indimenticabile e perfetto lo struggente tema musicale del maestro Nino Rota, che riecheggia con poche note il candido animo del personaggio clownesco interpretato da Giulietta Masina.
Il secondo Oscar coincise anche con un altro film dalla forte connotazione poetica, Le Notti di Cabiria (1957), nel quale la prostituta Cabiria (ancora Giulietta Masina), disgraziata ma combattiva, che pare avere sette vite come i gatti, diventa l’emblema di un’umanità affamata di esistenza, omaggio del regista ai reietti delle borgate romane. Film commovente e ironico, a tratti quasi esilarante ma con un finale drammatico, riscattato da un’ultima sequenza sublime, che confina con il sacro.
Sono questi i due film che hanno fatto conoscere Fellini al mondo, prima dell’apoteosi de La Dolce Vita (1960) e di 8 ½ (1963). Ad essi si deve principalmente la sua fama di regista poetico, capace di trarre il fantastico, il fiabesco e il burlesco, sentimenti profondi e vette elevate di spiritualità dalle storie e dai personaggi più ordinari, popolani quanto emarginati.
La carriera di Fellini ha conosciuto poi momenti più prosaici, soprattutto dopo il clamore del terzo Oscar (per 8 ½ nel 1963), lasciando la poesia in immagini a pochi altri episodi, in primis con Amarcord (1974, il quarto Oscar). Peccato che dopo il parziale fiasco commerciale de La Voce della Luna (1990), suo ultimo film, nessuno abbia più voluto produrre quello che sarebbe rimasto come il film definitivo: Il Viaggio di G. Mastorna. Liberamente ispirato al racconto di Dino Buzzati “Lo Strano Viaggio di Domenico Molo” (prima pubblicazione a puntate sulla rivista “Omnibus” di Leo Longanesi, 1938), il film doveva raccontare ciò che accade al protagonista dopo essere morto in un incidente aereo. Si capisce perché Fellini, scaramantico come pochi, lo rimandò più volte a partire dal 1965, anno del primo script, steso in collaborazione con lo stesso Buzzati. Certamente, con questa storia intessuta di sogni e fantasie visionarie, il lato poetico del regista riminese, il proverbiale tocco fellinesque avrebbe dato un che di magico e irripetibile a quello che è invece rimasto come il film mai realizzato più famoso della storia del cinema.