Roma. 3 luglio 1990. La notte è di quelle importanti. L’Italia si gioca il suo mondiale in una semifinale contro l’Argentina, che perderà ai rigori. Tra le lacrime di un popolo disilluso si consuma il dramma della morte di un noto e poco amato produttore cinematografico, Leandro Saponaro. 

A difendere la propria innocenza, al Comando dei Carabinieri, ci sono tre ragazzi, di origini diverse e di diversa personalità. Eugenia Malaspina, una più che ricca ragazza di Roma, depressa e ipocondriaca, Antonio Scordia, ragazzo pedante e metodico, in trasferta da Messina, e Luciano Ambrogi, brioso e invadente giovane di Piombino. Sono i tre finalisti del premio Solinas, dedicato alla sceneggiatura. Un premio che avrebbe dovuto regalare a uno di loro la possibilità di veder realizzata la propria storia. Ma non tutto sembra andare come previsto. I loro sogni si trasformano in un incubo nel quale rischiano non solo la sceneggiatura ma anche la propria libertà.



Sembra impensabile che lo stesso autore de La pazza gioia, uno dei film italiani più emozionanti degli ultimi anni, sia lo stesso autore di questa improbabile storia, presentata al pubblico con il titolo Notti magiche, quelle degli ultimi mondiali italiani. Una differenza abissale che colpisce e rattrista. All’intensità narrativa, al ritmo irresistibile, al senso profondamente umano del primo film, corrisponde una storia banale, nostalgicamente superficiale e forzatamente recitata del secondo.



Tre personaggi in cerca di futuro si incrociano in questa vicenda che ci lascia solamente assaporare la magia degli anni Novanta, affondando la sua lama spuntata nell’ambiente cinematografico decadente di fine secolo, quando Virzì mosse i suoi primi passi al cinema. Qualche risata, qualche sbiadita sferzata e un pieno di romanità, fastidiosa e buzzurra.

Ma lo sfondo è la parte migliore di un racconto che ruota attorno ai sogni frustrati di tre giovani sceneggiatori, demoliti da una recitazione eccessiva e macchiettista che non strappa alcun sorriso e che attinge a piene mani dalla banale e prevedibile commedia umana. Stereotipi localistici e caratteriali che disturbano e avvicinano pericolosamente il film ai lobotomizzanti modelli televisivi, troppo schematici e ripetitivi. 



Si riconosce, nei caratteri ridondanti dei personaggi, una psicologia spiccia e semplificata che nutre le paure di una generazione costruita attorno al tavolo di un format tv. Qualcosa di davvero misero e artificioso. La sostanza è probabilmente storica, ma debole e laterale, legata al racconto di un cinema grottesco e incrostato, impaurito dalla perdita dei grandi maestri e spinto dalla speranza in una nuova primavera, che certo, a onor del vero e salvo alcune eccezioni, non ha poi brillato davvero.

Perfino la fotografia non brilla in queste notti magiche che risuonano solamente grazie alle note di un inno emozionante e popolare che ha permeato le vane illusioni di un mondiale ben iniziato e mal concluso.