Stavolta a casa Disney hanno voluto giocare con il fuoco: perché se i remake in live action o aggiornati alle tecnologie contemporanee dei loro classici, da Cenerentola a Il re leone passando per Il libro della giungla, fanno parte del senso di nostalgia che fonda gran parte della cultura pop dei nostri giorni, fare un seguito di un film come Mary Poppins, vero e proprio mito che ha segnato quasi 60 anni di immaginario infantile, pareva una mossa suicida. Eppure Il ritorno di Mary Poppins, diretto dallo specialista di musical Rob Marshall, riesce a risultare efficace.
La storia del film (scritta da David Magee e basata solo nominalmente sul secondo romanzo della serie di Pamela Travers) è ambientata 30 anni dopo la fine della prima pellicola e vede la magica bambinaia “praticamente perfetta sotto ogni aspetto” – interpretata da Emily Blunt – al servizio di Michael e Jane Banks, ora adulti, e dei tre figli di Michael che rischiano di perdere la casa a causa del mutuo contratto con la banca in cui l’uomo lavora. Ma per arrivare al lieto fine ovviamente dovranno affrontare molte avventure e incontri magici.
Strutturato rispettosamente sul film di Robert Stevenson, di cui sembra quasi un remake, Il ritorno di Mary Poppins gioca sul sicuro di un film per ragazzi di pura marca disneyana cercando sia di catturare il nuovo pubblico infantile con il suo tripudio di colori, fantasmagorie e trovate surreali, sia soprattutto di titillare l’emozione del pubblico adulto, presumibilmente cresciuto con il personaggio di Julie Andrews, ricalcando le situazioni già conosciute e dando loro nuovo smalto: i lampionari guidati da Jack al posto degli spazzacamini di Bert, il sindacalismo al posto delle suffragette, la casa “sottosopra” di Meryl Streep al posto dello zio che vola se ride e via elencando.
Di diverso nel film di Marshall c’è un senso dell’avventura inedito e ben realizzato, con l’inseguimento in carrozza per salvare il piccolo Georgie o la corsa contro il tempo finale, e lo spirito dei tempi, in una Londra da Grande Depressione che però odora di Brexit e un senso di conservazione molto cauto rispetto all’inno alla disobbedienza del primo, in cui le banche non sono il nemico, ma anzi sono la spina dorsale di una nazione in cui le responsabilità individuali (di Colin Firth, nella fattispecie) sono più gravi delle falle del sistema, ma anche con una definizione dei rapporti tra figli e genitori più fragili e moderne.
Quello che resta inalterato è il pregio tecnico e registico dell’operazione, con Marshall – anche coreografo – che mescola sapientemente gli stili e le tecniche, regalando attimi di magia e immaginazione preziosi, come la sequenza in animazione tradizionale, e bei numeri musicali. L’unico limite del film – a parte l’adattamento italiano molto discutibile delle canzoni – è quindi l’esistenza del precedente che il regista guarda costantemente cercando di replicarne lo sprint e quindi rendendo impossibile smarcarsi dal confronto: le critiche negative al film si basano infatti solo sul confronto.
Preso invece come operazione singola, come prodotto cinematografico in quanto tale non si può negare a Il ritorno di Mary Poppins la fragranza dei suoi ingredienti, la bontà artigianale della sua realizzazione, il senso dello spettacolo che Disney non si nega quasi mai. Giudicarlo solamente sulla base della magia del precedente, filtrata dall’età, e di come quella magia sia sfumata in occhi adulti è ingeneroso: chiediamolo semmai ai bambini di oggi, se il film di Marshall ha il giusto tono di magia.