È il film biografico musicale con il maggior incasso di tutti i tempi. Bohemian Rhapsody, dedicato alla vita di Freddie Mercury e dei Queen, firmato da Bryan Singer, è di sicuro un progetto produttivamente ed economicamente vincente: è interessante quindi vederlo e parlarne alla luce di questo successo e alla luce soprattutto dei suoi limiti cinematografici.



Il film si concentra nel periodo che va dalla formazione della band fino al Live Aid del 1985 a Wembley, ovvero tutta la parabola ascendente del gruppo fino all’apice, e ovviamente punta il faro soprattutto su Mercury, sulla sua personalità creativa, esplosiva e ombrosa, fino alla scoperta dell’Aids che lo porterà alla morte.



Già dalle prime sequenze, dalla prima esibizione, lo script di Anthony McCarten e Peter Morgan decide di “stampare la leggenda” dedicandosi a innalzare un inno all’arte della performance e del rock barocco della band, come se volesse fare la biografia delle opere e delle canzoni del gruppo, più che dei loro membri, più che scrivere le loro vite che infatti vengono ampiamente romanzate per illuminare i successi, per mostrare la genesi di canzoni come “We Will Rock You” e della canzone eponima o di album colossali come “A Night at the Opera”, o ancora di gesti come l’asta del microfono brandita come scettro.



E questa scelta, sicuramente pensata per convogliare l’attenzione del pubblico più distratto che però ama e conosce quelle canzoni (e infatti i fan che conoscono le vite si sono dissociati da certe reinvenzioni), è tanto furba quanto sacrificale per tutto il resto: a partire dallo stesso Mercury, messo in scena come una figura patetica, una diva capricciosa e talentuosa come stereotipo comanda, di cui oscurare tutte le trasgressioni e le sfumature a partire dalla bisessualità, trattata in modo discutibilissimo, edulcorata per fini commerciali. Per arrivare a una paradossale mancanza di energia che dai personaggi si irradia a tutto il film: tolta la robusta sequenza a Wembley, che apre e chiude il film, Bohemian Rhapsody sfoggia tutto l’armamentario corrivo e anodino del film tv anni ‘90, nella messinscena convenzionale, tutta giocata sulla mimesi di facce, trucchi, parrucchi e costumi (senza nulla togliere alle performance notevoli di Rami Malek e del suo doppiatore Marc Martel), nei dialoghi interminabili, nel montaggio squilibrato che non sa dare la scansione emotiva della vicenda.

Il film ha avuto notevoli problemi produttivi come vari cambi di regia e sceneggiatore, tra cui il regista Bryan Singer licenziato ufficiosamente per il suo coinvolgimento in scandali sessuali, ma unico firmatario per motivi contrattuali (non accreditato Dexter Fletcher, che sarà alla regia del film su Elton John), e questo è sicuramente un’attenuante, ma aver tolto il rock anche come mood da un film su una delle massime icone del genere è meno perdonabile. Per il resto ci sono le canzoni e un finale che manda contento lo spettatore a casa: ma è come un bel bis dopo un concerto mediocre.