Una fiction che è fiction nel senso letterale della traduzione della parola inglese che ormai, come tante altre, è entrata nel linguaggio comune italiano: “finzione”. Già trasmesso al cinema per due giorni, il 23 e 24 gennaio scorsi, più o meno per la ricorrenza della sua morte, l11 gennaio 1999, e trasmesso in due puntate, ieri sera e oggi 14 febbraio, anche qui più o meno in concomitanza di un altro evento, la nascita, il 18 febbraio 1940, coprodotto da Rai Fiction e Bibi Film, scritto da Francesca Serafini e Giordano Meacci e diretto da Luca Facchini, “Principe libero” difficilmente si può definire un biopic sulla vita di quello che forse è il più conosciuto e amato dei cantautori italiani, Fabrizio De André. 



Lo dice la stessa vedova Dori Ghezzi che molti episodi della sua vita sono stati volutamente cambiati o cancellati: “La prima chitarra ad esempio a Fabrizio la regalò la madre, non il padre. Nanda Pivano in quegli anni all’Agnata, in Sardegna, non ci venne mai; “La canzone di Marinella”  era stata ispirata da un fatto accaduto nell’astigiano invece viene ambientata ad Arenzano, in Liguria. Non ho voluto correggere in corsa, e a tratti ne ho anche molto sofferto”. Non sono cose da poco. Il fatto che la prima chitarra gli venne regalata dal padre è un episodio importante della vita di Faber: il loro rapporto, quello tra un padre avvocato, tra i più influenti della città di Genova, e il figlio fu sempre combattuto, influenzando non poco il futuro cantautore e solo in parte rinsaldato. Che quel regalo venne fatto dal padre, dimostra che comunque un legame profondo c’era, seppur nascosto da due personalità in lotta fra loro. “Ero in una posizione molto delicata, ho cercato di ‘proteggere’ e tutelare le figure di contorno, più che Fabrizio e me stessa. Sulle cose più personali sono schiva, ho lasciato ad altri il compito di immaginarci” ha detto ancora Dori Ghezzi. 



Ecco appunto, il Fabrizio De André di questo film è più immaginato che reale. Il figlio Cristiano, un rapporto difficilissimo con il padre anche per lui, lo ha stroncato ancora prima che uscisse: “Preferivo si facesse un film, la parte che riguarda me, mia madre, mio padre è talmente delicata. Io l’ho conosciuto più che altre persone. Magari verrà fuori una cosa buona, ma io non mi sono convinto, non mi sono aggregato, dal mio punto di vista mio padre ha bisogno di un regista che concepisca la sua storia in un’altra maniera”. E ha ragione: stiamo parlando di un uomo, Fabrizio, alcolizzato per quasi tutta la vita, che si divertiva a tenere il figlio Cristiano per le gambe sopra un dirupo ridendo: lo mollo o non lo mollo?. Un padre che ha psicologicamente devastato il figlio, che è uscito solo da poco da alcolismo e tendenze autodistruttive.



Che senso ha tutto questo, incluso un protagonista, l’attore Luca Marinelli, che ha un fortissimo accento romano, quando De André, da genovese purosangue, aveva invece un fortissimo accento genovese? Anche questo non è da poco: significa cancellare l’importanza fondamentale che fu per lui crescere nel capoluogo ligure, una città ai tempi divisa brutalmente tra una classe sociale ricca e potente (di cui faceva parte la sua famiglia) e una povera ed emarginata, quella che lui cantò metaforicamente o inconsciamente mettendoci dentro il suo conflitto familiare, allontanarsi da quel mondo borghese che lo stava soffocando. Non ci sarebbe stato un Fabrizio De André a Roma o in qualunque altra città, poteva nascere solo a Genova. E non ci sarebbe stato un capolavoro come Creuza de mä.

«Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare». E’ una citazione del pirata britannico Samuel Bellamy inserita nelle note di copertina di uno dei dischi più belli di Fabrizio De André, “Le nuvole”. A questa frase si ispira il titolo del filmato. Purtroppo del De André musicista o fine cesellatore di parole non c’è quasi nulla: “Principe libero” racconta molto dell’uomo Fabrizio, ma dice poco della genialità che ha reso Fabrizio De André una figura fondamentale nella storia della musica d’autore italiana” ha commentato il maggior esperto del cantautore genovese, Walter Pistarini. Scompaiono completamente discografici e artisti che hanno collaborato con lui, gente come De Gregori, Pagani, Fossati, importantissimi. Di come questo artista abbia costruito le storie dei diversi, degli ultimi, dei diseredati, e a farne parabola, canzone, preghiera; la ricerca della libertà e il racconto di un viaggio fatto “in direzione ostinata e contraria”, come dice una sua canzone, non c’è traccia.

La solita fiction generalista per un pubblico generalista insomma. I cosiddetti “biopic” a memoria del sottoscritto non funzionano mai. Ancora fresco è il ricordo di quello terribile dedicato a Johnny Cash dove a cantare le canzoni del Man in Black era l’attore protagonista Joaquim Phoenix. Se al protagonista della storia togli la cosa più significativa che ha, in questo caso la voce, che cosa resta? Un po’ come far parlare Caravaggio a Manuel Agnelli. In questo caso specifico poi si nota superficialità e non si capisce davvero in che modo De Andrè sia diventato il De Andrè che noi tutti conosciamo. Sembra quasi la vita di un uomo noioso. 

Impossibile raccontare la complessità di vite così ricche di eventi in un paio d’ore o poco più. Lo dice anche Dori Ghezzi: “Ho dovuto rinunciare a personaggi che sono stati determinanti nella crescita umana di Fabrizio. In due ore e mezzo capisco che si impongono scelte drastiche. Mi manca la Nina della campagna astigiana, quella di Bicio bambino, mi manca la Encia dei fine settimana con Villaggio. Persone-chiave, ma nel racconto sarebbero diventate figurine”.

Chi si accontenta delle figurine?