Benvenuti a casa mia, il nuovo film di Philippe de Chauveron (Non sposate le mie figlie!), esordisce mostrandoci due mondi in contrasto tra loro: la lussuosa villa di Jean-Etienne Fougerole (Christian Clavier), scrittore e professore universitario che vive con la moglie Daphne (Elsa Zylberstein) e il figlio adolescente, e la roulotte condivisa dai numerosi membri di una famiglia Rom alle porte di Parigi. 



Lo scrittore, di mentalità progressista, partecipa a un dibattito televisivo con un collega dalle idee opposte. L’oggetto è l’immigrazione. Mentre Jean-Etienne sostiene che sia dovere di ogni cittadino spalancare le proprie porte agli stranieri, il collega è a favore del rimpatrio, per salvare il Paese da un’apocalittica invasione. Mentre i toni si accendono, arriva la provocazione: se davvero Jean-Etienne è così generoso e aperto, perché non ospita i Rom in casa sua? 



Costretto per motivi di immagine ad accettare la sfida, lo scrittore si ritrova con una famiglia di immigrati provenienti dall’est europeo nel suo giardino, intenzionati a rimanere e a sfruttare la situazione. Daphne, un’artista che predica bene e razzola male, fatica ad accettare la novità, mentre il figlio sembra felice di rompere i “pregiudizi borghesi” e fa gli occhi dolci alla bella Lulughia. Peccato che il padre della ragazza, Babik (Ary Abbitan), sia disposto a tutto pur di difendere la sua virtù. 

Il resto del film è una divertente sequela di scaramucce, scontri e battute, mentre la colorata e chiassosa famiglia rumena scombussola la vita degli ospiti borghesi, costringendoli a fare i conti con i propri pregiudizi e con l’abisso che esiste tra il dire e il fare. La brillante commedia di de Chauveron prende in giro la borghesia parigina di sinistra, provocando il pubblico per mettere in luce un nucleo di verità su cui lo spettatore è spinto a riflettere. 



Caricando i personaggi di tratti macchiettistici e forzando le situazioni, il regista dimostra come le ideologie si nutrano di parole e tendano a sgretolarsi davanti ai fatti. Un conto è predicare in TV sulla necessità di accogliere e integrare, un altro è farlo sul serio. Quando Jean-Etienne è costretto ad aprire le porte del suo castello alla famiglia Rom (che comprende un divertentissimo finto-Rom deciso a prendersi reggia e regina), si sente subito minacciato e teme di perdere i suoi privilegi. I discorsi tra lui e la moglie, che nascondono gli oggetti di valore commentando che è triste non fidarsi di nessuno, sottolineano con ironia le contraddizioni del mondo borghese, aperto a parole ma non nei fatti.

Non che i Rom siano tratteggiati in modo più gentile. Il capofamiglia è il padrone che decide per tutti, non sembrano realmente interessati a integrarsi e migliorare la propria condizione, hanno costumi antiquati e idee retrograde. Eppure Babik sembra avere una sua “morale”: ruba per sopravvivere, ma non permette all’intruso di rubare la moglie al loro ospite.

Come già nell’antichità, la commedia mette in ridicolo per divertire e fare riflettere, smascherando le ipocrisie e attaccando i pregiudizi della società contemporanea. Quello che manca, nel film, è un avvicinamento sincero, una riflessione su come sia possibile superare la distanza e venirsi incontro al di là delle differenze. L’amore, che avrebbe potuto aiutare a colmare le lacune, è ridotto a una cotta superficiale tra adolescenti, per culminare in un matrimonio che celebra l’impossibilità di risolvere il problema. Perché nessuno è disposto a cambiare davvero, né da una parte, né dall’altra. 

Emerge così un pessimismo di fondo che, a dispetto delle battute e delle situazioni divertenti, fa capire come sia difficile affrontare il problema e proporre soluzioni reali.