È più moderno che classico Hostiles (e di sicuro non classicista), più crepuscolare che mitologico. Il film diretto da Scott Cooper è un western morale che guarda agli anni ’70 di Soldato blu e della lettura politica esplicita, ma con il sottotono e lo sguardo che sono tipici del regista, ancora oggi poco apprezzato. Il film racconta di un capitano dell’esercito (Christian Bale) che accetta, non proprio di buon grado, di scortare un cheyenne e la sua famiglia verso la riserva in cui vivono. Ma la reti di odii e rancori accumulatisi in anni di violenza, incarnata dal personaggio di Rosamund Pike che ha visto la sua famiglia sterminata dai cheyenne, è impossibile da estirpare. 



Scritto da Cooper con Donald Stewart, Ostili racconta la paura e il rapporto con il diverso legando a doppio filo l’epica della frontiera e le sue conseguenze con la visione politica dell’America contemporanea, con le politiche trumpiane del muro al confine col Messico o del Muslim Ban. I nativi americani infatti sono qui raccontati come i neri o ancora più precisamente come gli islamici, arabi o meno, che vivono sul suolo americano e magari sono anche statunitensi, ma cominciano poco a poco a sentirsi emarginati rispetto alle loro comunità. Anche perché più che sul rapporto con l’esterno e lo straniero, Cooper si concentra sui nemici interni, sui demoni a noi più affini e che minano le possibilità di diritto e giustizia: la sequenza coi cacciatori di pellicce è in questo senso esemplare, in parallelo alle differenze tra accettazione e rifiuto che dominano il gruppo dei protagonisti.



Ostili ragiona su questi temi con un po’ di giusta retorica, ma anche con un andamento cupo e compassato, uno stile denso e compresso che esplode di rado e che lo rende doloroso più che crudo, sostenuto dal senso di Cooper per gli spazi (si guardi la bellezza della prima e dell’ultima scena, opposte per toni, unite dalla sapienza di luoghi e inquadrature), per suoni e musiche (di Max Richter) e per la gestione degli attori, tutti praticamente perfetti da Bale a Pike. 

Il suo quarto quindi è un altro bel film di una carriera molto interessante, che dopo il bell’esordio con Crazy Heart e l’ottimo secondo Il fuoco della vendetta ha dimostrato uno sguardo sensibile e caloroso nel descrivere i chiaroscuri degli Usa attraverso un cinema fieramente medio, che cerca l’emotività non semplice, il dialogo produttivo con lo spettatore anziché la furia espressive. E che pure, non facendo rumore, rischia di mettersi in disparte.