Chicago. Paul Kersey è un affermato chirurgo nel pronto soccorso di un ospedale in città. La sua è una vita tranquilla e serena, in compagnia di una famiglia unita e affettuosa. Un giorno, mentre Paul viene chiamato d’urgenza a lavoro, viene uccisa la moglie Lucy, durante una rapina in casa, mentre la figlia Jordan viene ridotta in coma, dopo essersi ribellata ai criminali. Kersey cerca conforto nel fratello Frank e affida le sue speranze di giustizia al corpo di polizia cittadino. Quando capirà che le indagini non sembrano portare ad alcun risultato, deciderà di affidarsi alla giustizia privata.
Stesso titolo (Il giustiziere della notte), stesso nome del protagonista (Paul Kersey), stessa storia, con piccole varianti contemporanee, che danno risonanza ai crimini di Kersey attraverso la diffusione virale, oltre alla cronaca televisiva. Di fatto è il remake del glorioso film culto degli anni ’70, che vide Charles Bronson assurgere a paladino della giustizia fai-da-te. Un violento difensore della quiete pubblica, uno Spiderman incattivito e senza legge, accecato dalla sete di vendetta e sospinto dall’assenso del pubblico pensiero. È uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo, se in fondo la polizia non sembra occuparsene. Dopotutto, sono solo criminali.
Un gioco cinematografico che sembra funzionare, stimolando sentimenti profondi, grotteschi, tra i più deplorevoli dell’essere umano. Un ricatto emotivo che afferra lo spettatore per il cuore, portandolo inevitabilmente ad annuire, mentre fa il tifo per l’eroe del male, che fa quello che deve fare. Dopo averci nutrito dell’idillio familiare, Roth ci porta per le strade della vendetta, dove la rabbia guida l’opera di pulizia. Il mondo applaude, tra qualche sorda polemica e voce discorde.
Bruce Willis non sembra poi tanto tormentato, come anni fa il suo rude e silenzioso predecessore Bronson. A suo agio nell’uso delle armi, in molti altri personaggi al cinema, cavalca con maestria e consuetudine, almeno per lo spettatore, la sua nobile “missione sociale” che lo porta in breve tempo, con stridente contraddizione, dal salvare vite al portare morte.
Cos’è cambiato dagli anni ’70? Se allora la fame di giustizia sembrò una folle provocazione, una storia estrema, tanto stimolante quanto spettacolare, oggi il Giustiziere sembra essersi trasformato in una legittima storia quotidiana. Nell’America trumpiana, la soluzione alla violenza è la violenza. Contro le stragi a scuola si armano i professori. Contro le testate protonucleari nordcoreane si affilano i pulsanti e le minacce celoduriste. Contro rapine e violenze, si spinge alla vendetta o alla castrazione.
Una visione del mondo muscolare, oppositiva, superficiale. Una ricetta sterile, preconcetta, favolistica. Un abominevole istinto ingiustificato e giustificabile di sopravvivenza e conservazione. Che la forca da social network applaude e imita, e che la polizia accetta e sopporta. È il ritorno santificato alla pena di morte, pubblica e privata, che dispone delle vite degli altri, tralasciando storie, debolezze e tragedie personali delle parti. Guarda gli effetti, e non le cause. Promette miracoli, sobilla istinti, semina odio. Occhio per occhio, dente per dente. In fondo, nulla di così inconsueto né di così profano, vista la sua derivazione biblica.
Se il Giustiziere è un accattivante film d’azione, uno stupido e maledetto “videogioco” per passare il tempo, se è l’ultimo catartico GTA cinematografico, un pratico oggetto di sfogo virtuale per scaricare l’ansia da declino, è un ottimo film. Coca, pop corn, una pacca sulla spalla. Un sabato sera in amicizia, tra nostalgia e spensieratezza. Se invece c’è dell’altro, c’è da avere paura. Anche perché Trump sembra lontano lontano, ma il suo modello è pur sempre dietro l’angolo, semplice semplice, violentemente suggestivo e a portata di mano. E il tempismo con il quale il film esce, nel nostro Paese, pare inquietante.