In Italia avete le elezioni, in Siria si continua a morire, ma da noi questa sera si stende un tappeto rosso davanti al Dolby Theater di Los Angeles, e via! Sono anni che non guardo più i Grammys, i premi della musica. Quel che si ascolta lì non mi dice niente, non dice niente. Le uniche alitate di vita arrivano solo, di tanto in tanto, da qualche Indie band che rilancia le vecchie domande di sempre con il linguaggio di oggi. Ma la notte degli Oscar è diversa, è un’altra cosa. Un tappeto rosso, neanche fosse quello di Aladino, ci fa volare in quella dimensione surreale propria del mondo del cinema, che un mondo non è, ma solo un microcosmo ingigantito dei sogni di quelli che lo vivono (pochi) e di quelli che lo guardano (tanti). 



Come dice Jeanine Basinger, storica del cinema, “i film non inventano i comportamenti, li riflettono, ma nel farlo con belle forme e stelle di grande bellezza, li rendono attraenti”. Perciò da tanto tempo questa è una serata in cui osservo e ascolto, e magari tifo pure se ho già avuto occasione di vedere qualcuno dei lavori in gara. Se lo scintillio delle scenografie, l’estetismo ridondante degli abiti e la bellezza dei protagonisti sono tanto fuori dal mondo reale, di solito i messaggi lanciati, i proclami che si rincorrono sottoforma di battuta o di appello, la scelta dei premiati, ci aiutano a capire in che direzione stiamo andando. 



Di solito, ma non questa sera. O forse sarebbe meglio dire che questa sera lo scorrere lieve, garbato e divertente del programma ha avuto il sapore di un inconsapevole desiderio di riconciliazione. Riconciliazione tra questo mondo luccicante e lontano e gli spettatori, la gente comune strapazzata tra tensioni razziali, di gender ed economiche. Potrà sembrare banale, ma mentre lo scorso anno un gruppo di sprovveduti era stato trascinato sul palco del Dolby come una squadra di scimmiette addomesticate, quest’anno sono stati gli attori ad attraversare la strada per recarsi in una sala cinematografica a rendere omaggio a chi li fa campare, e campare bene: gli spettatori. 



Jimmy Kimmel, chiamato anche questa volta a condurre le danze, è stato bravo, simpatico, le sue battute vivaci e mai fuori luogo. Solo una mezza  boutade sulla Casa Bianca che probabilmente quasi nessuno ha capito. Insomma, per una volta almeno il cinema è stato l’assoluto protagonista. Non sono mancati momenti che mi hanno fatto sorridere involontariamente, come quando nel ricevere il premio come “best animated feature film” per “Coco”, la donna premiata ha ringraziato la moglie e l’uomo premiato ha ringraziato il marito. Capisco di essere “old school”, vecchio stile. Oppure quando la bravissima Frances McDormand, Oscar come migliore attrice protagonista, ha fatto il suo inno alle donne chiedendo a tutti di alzarsi in piedi. Ma questo ci sta pure.

È anche vero che l’omaggio reso ai militari, “coloro che hanno combattuto per la libertà in tutto il mondo”, e lo scrosciante applauso che ne è seguito, rappresenta un segnale di controtendenza. E poi la musica, anche se francamente salverei solo Eddie Wedder e la sua interpretazione di “Room at the top” di Tom Petty mentre sullo schermo scorrevano le immagini di tutti gli attori e cinematografari passati da questo mondo all’altro. 

Infine, i vincitori. Non sono certamente un critico cinematografico ma mi pare piuttosto evidente che quest’anno la sciocca corsa a premiare gender, razza e politica abbia ceduto il passo al valore espressivo di opere e attori. Io lo prendo come un segnale di speranza. God bless America e pure gli Oscar!