Ricorre oggi il quarantesimo anniversario dell’esordio nel cinema professionale di Nanni Moretti. Il suo Ecce Bombo, titolo che parafrasa il latino biblico dell’Ecce Homo, usciva in una sala capitolina l’otto marzo del 1978, confermando il singolare talento del suo giovane autore – allora venticinquenne – già rivelatosi per via amatoriale. Il film fu infatti preceduto da alcune opere semi-professionali, realizzate da Moretti con attrezzatura leggera (il mitico super-8) a partire dal 1973. Di questa fase è soprattutto il sorprendente lungometraggio Io Sono un Autarchico (1976), girato con amici e attori non professionisti, inizialmente circolato in ambienti ristretti e poi gonfiato a 16 mm per una più ampia distribuzione, a colpire l’attenzione della critica. Anche perché il film dell’Autarchico diventa ben presto un cult: circola nei diversi ambienti culturali della sinistra, di partito e non, fa capolino in festival e rassegne, viene segnalato come opera meritevole dal Sindacato Critici italiani, rimane in cartellone un mese in una prestigiosa sala parigina, si guadagna perfino una proiezione a un forum parallelo al Festival di Berlino del 1978.
Così, mentre l’Autarchico miete inattesi successi e segnala il suo autore ai livelli che contano, lo stesso si prepara al passo successivo: la realizzazione di un lungometraggio professionale. E Nanni Moretti con Ecce Bombo non delude le aspettative: realizza un film veramente peculiare per il panorama del cinema italiano di allora, sviluppando con competenza registica le tematiche generazionali già presenti nell’Autarchico, elevando inoltre a sistema le particolari scelte di stile, che caratterizzeranno il suo cinema da qui fino almeno al capolavoro Caro Diario (1993). Un tratto emerge con forza: il giovane autore ha le idee chiare sul taglio visivo che vuol dare alle sue storie, che per un regista è la cosa più importante di tutte.
Il film racconta, tra azioni sospese, silenzi significativi e una struttura senza picchi (climax), definita “orizzontale” dallo stesso regista, le giornate romane di Michele (Moretti), giovane universitario che “fa delle cose” e “vede gente”, soprattutto i suoi tre amici Mirko (Traversa), Vito (Zaccagnini) e Goffredo (Galletti), e la fidanzata Silvia (Javicoli). Le vicende del quotidiano si disegnano attraverso una serie di quadretti a incastro, un flusso di eventi apparentemente casuali piuttosto che una narrazione governata dalla suspense, ovvero dall’attesa di qualcosa che deve succedere, e che qui, per evidente scelta stilistico-tematica, non succede mai. La messa in scena è di conseguenza scarna, scevra di azione-spettacolo, ridotta all’essenziale. Lo sguardo è prevalentemente fisso, il montaggio secco, le azioni di rado frammentate nel montaggio stesso, che invece diventa quasi analogico nei raccordi di senso tra una sequenza e la successiva.
Ne esce il ritratto di una generazione, o meglio una parte di essa, senza memoria e senza chiare prospettive, guardata come si guardano i pesci in un acquario (metafora suggerita dallo stesso Moretti). Pervade il film l’idea dell’immobilismo del tempo, del fallimento delle aspirazioni giovanili agli inizi dell’epoca del riflusso, della frammentazione dei rapporti tradizionali (famiglia, amici, fidanzata) in una rete di convenzioni ripetitive e contraddittorie. Il tutto è ritratto con estetica e poetica da teatro dell’assurdo, proprio quelle del celebre drammaturgo romeno Eugène Ionesco (1909-94).
Funzionale a questo sentore di straniamento è anche la scelta di filmare i personaggi in una Roma anonima, priva di quei riferimenti architettonici e monumentali che invece compaiono nella commedia degli anni Sessanta, nella quale quelli facevano da “quinta” a personaggi integrati nei valori condivisi, socialmente riconosciuti. I “pesci” di Moretti, invece, nuotano in una città-acquario senza speranza e senza via d’uscita, dove l’unica salvezza pare essere la dimensione del comico istrionico. Numerose, infatti, le scene in cui il Michele-Moretti esegue gustose parodie del presunto comportamento del giovane medio. Celebre la correzione dei lombardismi della madre a tavola: “Silvia, non la Silvia. Fortunatamente siamo a Roma, non a Milano: la Silvia, il Giorgio, il Pannella, il Giovanni. Cacare, non cagare. Fica, non figa”.
Inizialmente catalogato dalla critica superficiale tra le opere prime dei nuovi comici di cui pullulava il cinema italiano di allora, il successo del film fece velocemente ricredere tutti, poiché il cinema di Moretti possiede uno spessore testuale sconosciuto agli altri esordienti. Moretti può tranquillamente essere considerato l’unico autore della terza generazione (erede della seconda sotto esemplificata), perché, a differenza dei vari comici tv sbarcati al cinema (con l’eccezione di Verdone, che ha fatto scuola di regia), è nato nel cinema e per il cinema – se pur da autarchico indipendente e autodidatta – mentre tutti gli altri nascono in altri ambiti (tv e teatro di cabaret), quindi con altri linguaggi e altri intenti. Questo del primo Moretti è un cinema, a suo modo, figlio dello sguardo inquieto che caratterizzò gli autori della seconda generazione (quella dei vari Pasolini, Olmi, Ferreri, Bellocchio e altri), a sua volta derivante, in buona parte, dall’esperienza neorealista.
Sostenne un ventennio dopo Gianpiero Mughini, allora attore dilettante per l’amico Nanni, che Moretti in quel film abbia voluto mettere in scena, prendendoli in giro, gli amici del fratello maggiore Franco (critico letterario, per molti anni ordinario di letteratura negli Stati Uniti), universitari impegnati della Roma borghese e sinistrorsa degli anni Settanta. Sarà, non abbiamo motivo di dubitare. Comunque sia, qualunque fosse la sua più diretta fonte di ispirazione, Ecce Bombo rimane un cult generazionale di alto livello stilistico. Un esordio fra i più emblematici, e silenziosamente chiassosi, nella storia del cinema italiano.