Gli Oscar di quarant’anni fa premiavano, inaspettatamente, una singolare commedia frutto del genio inquieto di quel poliedrico autore che risponde al nome – fittizio, come si addice al vero Cinema – di Woody Allen. Io e Annie, uscito nelle sale Usa nell’aprile del 1977, risultava infatti il miglior film nella kermesse-Oscar dell’anno successivo, dove si aggiudicava anche i premi per la miglior regia, sceneggiatura originale e attrice protagonista – una splendida Diane Keaton. Il film segnava, oltre all’infrequente trionfo di una commedia (solo parzialmente sentimentale) nella sacra notte hollywoodiana degli Oscar, anche il “cambio di passo” nella carriera del suo ispirato autore.
Infatti, da qui al successivo decennio, almeno, Allen infilerà una decina di film uno più riuscito dell’altro (salvo il quasi plagio felliniano di Stardust Memories, 1980), evolvendo il suo iniziale cinema comico-commedia, fatto di parodia, dialoghi fulminanti e battute divenute storiche, in un cinema narrativamente più strutturato e visivamente impostato secondo dettami moderni, che gli ha consentito di affrontare – sia pure attraverso la consueta lente dell’ironia – tematiche di ampio spettro: culturali, generazionali, addirittura esistenziali. Con Io e Annie Woody Allen diventa definitivamente uno degli autori del rinnovamento americano, per la parte di esso che opera lontano da Hollywood sulla costa est del Paese, con epicentro New York, dove troviamo anche altri cineasti notevoli – all’incirca suoi coevi – come Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e John Cassavetes.
Il film si apre con un inusuale monologo del protagonista/autore (le due figure volutamente indistinte), che guarda in macchina e dà il là al racconto, accompagnato nei brani iniziali dei ricordi dalla sua voce over. Segue la vicenda, singolare quanto paradigmatica, del rapporto sentimentale tra l’attore comico tv Alvy Singer (Allen) e Annie Hall (Keaton), impacciata aspirante cantante, tipica Wasp della New York medio borghese. Il rapporto pare beneficiare soprattutto Annie, che acquista fiducia e viene notata da un produttore musicale californiano (uno spassoso Paul Simon), mentre Alvy è geloso e irritato dalle aspirazioni di superficiale (secondo lui) successo della compagna.
Dopo separazioni e riconciliazioni, la definitiva scelta di Annie di tentare il successo musicale a Los Angeles decreta la fine del rapporto con Alvy. Lui ne scrive in una commedia autobiografica, riversando nell’arte i dispiaceri della vita, prevedendo però un lieto fine forzato. Trascorso qualche anno, esauritosi il sogno californiano di Annie, i due si ritrovano ancora a New York, ma ormai non resta loro che l’amicizia.
Allen non esita a mettere a nudo, in una commedia dal chiaro spunto autobiografico, i principali temi del suo cinema. In Io e Annie le già esplorate dicotomie arte/vita, uomo/donna, New York/Los Angeles assumono uno spessore mai conosciuto prima, diventando una sorta di paradigma espressivo che supera il particolare per diventare assoluto, esce dalla macchietta e dalla gag dei primi lavori per diventare Cinema. Il tutto in un film che, proprio per questa poetica dell’osservazione di costume, quasi sociologica ma ben camuffata nella leggerezza di una narrazione fluida e coerente, può benissimo essere indicato come la summa della commedia americana degli anni Settanta.
Le cronache raccontano di una laboriosa fase di preparazione, conseguenza del fatto che Allen vuole il film della svolta: il primo film non comico, il primo sul contemporaneo e per di più così vicino all’autobiografia esplicita. Forse in cerca di nervosa ispirazione, Allen gira una gran quantità di materiale, in parte ripetitivo e caotico, che poi il montatore trova difficile ridurre a una pellicola di solo un’ora e mezza. Ma il risultato appare subito di qualità, equilibrato e significativo.
In un’intervista europea del 1980, Allen confessa di aver scritto il film appositamente per la sua compagna (di allora) Diane Keaton, attrice – per sua ammissione – versatile e istrionica, capace di ridere, piangere a comando, cantare, recitare con lo sguardo. Una sorta di dichiarazione d’amore sotto forma di sceneggiatura cinematografica.
Il film segna anche la prima tappa della lunga collaborazione di Allen con il direttore della fotografia Gordon Willis, il quale riesce a caratterizzare le due città in cui si svolge l’azione con una diversa luminosità: piena e calda quella di New York, a bagliori strani quella di Los Angeles. Un tocco di stile per significare il differente peso delle due città nell’immaginario del protagonista, nonché l’opposto senso che esse assumono nella già citata dicotomia tematica del film. È questa anche una attenzione per la forma inedita per il cinema di Woody Allen, che testimonia la sua ferma e definitiva intenzione, come autore, di esplorare nuovi territori.
Il successo e il consenso della critica attorno a Io e Annie, sia prima che dopo gli Oscar, sono tali che Allen, con il successivo Interiors (1978), può permettersi un esperimento nel melodramma intimista, esplorando, sulle tracce del suo idolo Ingmar Bergman, qualcosa di molto lontano dal solito ambito. Visto il non felicissimo esito – di questo come degli altri suoi “esperimenti drammatici” – si direbbe che ogni autore-regista abbia un suo “passo naturale”, come accade agli atleti: c’è chi è portato per costituzione naturale – anche se poi affinata con l’esercizio – a correre i cento metri piuttosto che la maratona. Così c’è chi è di natura un comico, chi un melodrammatico, difficile riuscire con la stessa forza in entrambi i registri, forse il solo Chaplin è stato in grado di farlo.
Dichiarava Allen nel 1995, quasi vent’anni dopo il successo del film – il maggiore della carriera – che più volte gli era stato chiesto di farne un sequel, o concederne i diritti ad altri per farlo, ma di aver sempre rifiutato, pensando che i sequel non siano altro che sfruttamento economico, una sorta di tradimento dell’idea del film originale. Gli siamo grati anche per questo.