Da sempre grande esperto e ammiratore del genio di Oscar Wilde, Rupert Everett si presenta al pubblico del grande schermo in veste inedita. A 58 anni torna alla ribalta regalandosi il ruolo del grande autore, auto-dirigendosi e scrivendo egli stesso la sceneggiatura di un film che racconta una disperata ricerca di redenzione. The Happy Prince si gioca, in tutto il suo svolgimento, sull’omonima fiaba, scritta nel 1888, dallo stesso Wilde. Come il racconto in questione, il film che narra gli ultimi anni di vita del commediografo è malinconico e profondamente cupo. Alterna toni grigi e funerei a scene più dai toni patetici e decadenti di un Wilde ormai caduto in rovina che canta in bettole da quattro soldi.
Everett utilizza sapientemente la tecnica dei flashbacks che si intrecciano con maestria tra la vita sfarzosa e di successo, i due anni umilianti di prigione e il ritorno alla vita di Wilde dopo aver scontato la pena per la sua omosessualità. L’attenzione è posta più che sul contesto esterno o sugli amici di sempre Reggie (interpretato dal solito magistrale Colin Firth) e Robbie (Edwin Thomas), sullo stato d’animo di Oscar e sul suo rapporto burrascoso con il famoso Bosie (Colin Morgan). Egli è una figura estremamente negativa, che riflette un amore totalmente interessato e che trascina Oscar sull’orlo del baratro. Lontano dai suoi figli e solo nel momento della più cocente delusione, il poeta viene messo sotto la lente di ingrandimento dei suoi errori più grandi ed esposto nella sua assoluta inettitudine a essere padre e marito. Allo stesso modo si rivela il suo essere incapace di riprendere in mano la sua vita.
La scelta della luce è studiata per ogni scena. Nera e decadente, a tratti sembra preludio della morte del grande Wilde, quando abbandona lo scintillio del palcoscenico e si ritrova a brancolare nel tetro buio di malfamati locali, dove si rifugia, tra assenzio e cocaina. In antitesi si presenta l’immagine assolata di Napoli che accoglie Oscar e Bosie per un breve periodo. Breve, appunto, perché anche lì Wilde è raggiunto dai mostri del passato e da toni che si incupiscono via via che il racconto va avanti. Da scene di gioia si passa ben presto alle scene degradanti di orge e feste dissolute, fino al termine della relazione tra i due amanti. È forte la critica alla società del tempo, che si riflette anche sull’oggi, a una Londra perbenista ma ipocrita Ma non è dato scampo neppure alla superbia che scuote l’animo di Wilde, responsabile di molte scelte scellerate alla base della sua rovina, tra cui il perseverare in un amore che sa già non porterà nulla di buono.
Contrapposta alla figura negativa del giovane amante Bosie, Everett propone il personaggio di Robbie, da sempre innamorato e fedele ad Oscar, disposto a stare al suo fianco nonostante tutto e che, in effetti, si occuperà della riabilitazione dell’autore una volta morto.
La regia non lascia scampo neppure all’Oscar Wilde stanco e malato, che si trascina dentro una vita di stenti e di allontanamento dalla società che un tempo l’aveva tanto amato, spendendo i suoi miseri averi in assenzio e favori sessuali. Si vede il dolore profondo dell’uomo, una faccia di Wilde che nessuno conosce, abituati come siamo a vedere il suo nome sui libri di scuola. Ogni ruga di Everett sembra pensata apposta al servizio dell’interpretazione e sembra calzare a pennello.
The Happy Prince non è per nulla un panegirico alla figura controversa di Wilde, anzi. Come spiega lo stesso Everett è un tentativo di restituire al pubblico la figura del grande autore a tutto tondo, senza risparmiare nulla. Si esce dall’immagine edulcorata del poeta che all’ultimo ritrova Dio: Everett fotografa, infatti, ogni incoerenza del personaggio, anche nel suo ricadere negli stessi errori e nel lasciarsi trascinare in ciò che gli era già costato fin troppo caro. Non è certamente un film leggero, ma trattiene in sé un barlume di luce, quella speranza incarnata dalla figura del “principe felice” della storia, che perde tutto ma alla fine si ritrova.
Anche nell’estrema contraddizione ritorna l’immagine iniziale della piccola rondine del racconto e, con essa, la speranza, a toccare il cuore di un uomo che Everett insiste nel voler rappresentare nella sua più autentica natura: dopo aver toccato il limite più profondo dell’abisso sembra, all’ultimo respiro, intravedere la redenzione.