Dopo i Mondiali di pattinaggio artistico a Milano sembra naturale andare a vedere il film che racconta la storia della controversa pattinatrice americana Tonya Harding, protagonista di uno scandalo prima delle Olimpiadi del 1994. I, Tonya, diretto da Craig Gillespie, è una biografia raccontata in modo originale, alternando interviste e narrazione, ironia e dramma. Tonya Harding non è una principessa sul ghiaccio. Cresciuta in una famiglia disastrata, con una madre in stile Crudelia che la bastonava per farla diventare “qualcuno”, Tonya ha cercato la salvezza nel pattinaggio, senza mai liberarsi dai suoi demoni. 



Abituata a una madre-padrona, si è sposata giovanissima con un ragazzo che la picchiava e dal quale non riusciva a staccarsi. Il suo talento sul ghiaccio (è stata una delle poche ad avere il coraggio di eseguire un triplo axel in una gara) era “sporcato” dal suo stile aggressivo, che non piaceva ai giudici. Tonya non rappresentava l’immagine che l’America voleva dare al mondo, perché la sua vita era lontana da quella – privilegiata – delle aggraziate ragazze che danzavano sul ghiaccio in tutù.



Tonya si cuciva i vestiti da sola, fumava ed era invischiata in un rapporto malato con Jeff, un uomo di rara antipatia, un personaggio che incarna la stupidità umana (specialmente in coppia con il compare Shawn). Se la madre LaVona, interpretata da Allison Janney – che ha vinto l’Oscar come migliore attrice non protagonista – ha una sua malefica grandezza, Jeff è solo dannoso. Fu lui a orchestrare l’aggressione alla rivale di Tonya, Nancy Kerrigan, prima delle Olimpiadi? Così sembra. Per Tonya, dichiarata complice, lo scandalo significò la fine della sua carriera. Ma il film, che gioca con lo spettatore fin dall’inizio fingendosi un documentario, mostra che il pattinaggio, per la Harding, non era una passione, ma un mezzo per avere successo e guadagnare. Così le ha insegnato la madre.



Giusto? Sbagliato? Il cinema americano insiste da anni sul concetto del sogno, il traguardo che giustifica ogni sacrificio, il successo come coronamento di una passione da inseguire con costanza. La storia di Tonya mostra l’altro lato dell’America, la provincia in cui Cenerentola e la fiaba della fanciulla che diventa principessa non esiste. Per questo il film è così interessante: racconta la storia di una donna difficile, problematica, trash, un’antieroina magistralmente interpretata da Margot Robbie. Tonya dà fastidio perché incarna l’America che gli americani non vogliono far vedere, perché è una vittima della cultura mediatica e del sogno di una carriera che diventa bisogno di amore, di riconoscimento da parte di un Paese dominato dall’idea del successo a ogni costo.

Grazie alla Robbie, diventa impossibile non provare una sorta di empatia con la ragazza che pensa di essere niente senza il pattinaggio, che si svilisce in tutti i modi, incapace di amarsi e di difendersi. Infine, il film ispira una riflessione sullo sport, che rappresenta bene l’idea della vita come lotta per affermare il proprio talento. Per quanto bravo e costante, però, un atleta resta un uomo, con le sue vittorie e le sue sconfitte, i suoi momenti di debolezza e di ripensamento. 

Tonya è un personaggio tragico perché non è riuscita a trovare un equilibrio, a guarire dai traumi che nemmeno il pattinaggio poteva cancellare. In questo senso, il film è un monito ad andare oltre i miti contemporanei, oltre ciò che mostrano i media, oltre l’illusione che il successo, i soldi e il cosiddetto “sogno americano” possano curare le ferite che una persona si porta dentro.