Mario Cavallaro è un metodico negoziante milanese. In una Milano invasa da migranti, conduce una vita ordinaria e solitaria, vendendo calze da generazioni e proseguendo quel “progetto di vita” che, in qualche modo, ha avuto in eredità, senza possibilità di scelta. La sua vera passione, per le piante, la coltiva sul terrazzo di casa sua, dedicando a esse, diligentemente, il suo tempo libero.  Provato da un preoccupante calo delle vendite, Mario perderà il controllo di fronte all’arrivo di un ragazzo di colore, proprio di fronte al suo negozio, che troverà fruttuoso proporre agli avventori di passaggio le proprie calze, di dubbia qualità, a prezzi stracciati. Sarà l’inizio di un conflitto, e di un viaggio, che li porterà a incrociare i propri destini.



Contromano. È il verso del viaggio che da Milano, passando per Napoli, porta Mario Cavallaro fino in Africa, percorrendo al contrario il viaggio della speranza di milioni di migranti. Mario vuole liberarsi del problema alla radice, e lo fa in modo inconsueto e improbabile, ma a suo modo efficace. Un viaggio che occupa gran parte del film, regalando qualche momento simpatico, senza alcuna fragorosa risata.



Contromano non è e non vuole essere un film comico. È una commedia essenziale, nostalgica, a tratti realistica. È una fiaba idealista che Albanese ci racconta per spingere la riflessione, la sorpresa, il ribaltamento dei punti di vista. Per inventarsi la speranza in un cambiamento. È un bisogno descrittivo impellente quello dell’attore, e regista, milanese di adozione, che non si rassegna a mostrare i fatti come si è soliti mostrarli. Il dramma è leggero. Il conflitto sociale, che sembra escludere visioni razziste, genera soluzioni creative che sfociano nel gioco di una vacanza umanitaria. Vuole convincerci, con sincera e naturale discrezione, che c’è del buono nell’incontro con l’altro. Che dalla conoscenza nasce il rispetto, la curiosità, l’attrazione.



Promosso dunque, a mio parere, l’intento di esplorare un tema difficile, ricco di insidie, di bugie, di mezze verità e di chiusure ideologiche. Un tema che ha dominato oltremodo l’appena conclusa campagna elettorale, sospinto dal termine “invasione”, usato dai media e nello stesso film, che accende i dibattiti, genera mal di pancia e stimola le paure più recondite dell’animo umano. “L’emergenza” migrazione grida a caratteri cubitali l’idea di un fenomeno fuori controllo, da cui si stenta a raccogliere benefici, oscurati dal male della chiusura pregiudiziale e, a volte, dell’ignoranza o semplicemente della superficialità, che troppo spesso partorisce soluzioni semplici a problemi complessi.

Albanese ha saputo senza eccessi dimostrativi, che suonano spesso forzati e militanti, dire la sua, sognando un’integrazione che guarisce le solitudini dell’uomo, che premono a ogni latitudine, a ogni età e nei corpi di qualunque colore. Purtroppo però la delicatezza del racconto o, forse, la schematicità semplificante della “conversione umanitaria”, non sembra avere la stessa forza del racconto quotidiano della convivenza impossibile, che vediamo all’inizio del film. Un racconto assai più convincente del suo contrario, in grado quasi di alimentare il diritto all’esclusione, al rifiuto, alla difesa.

Una legittima battaglia all’autoconservazione, quella di Mario, che spinge a confermare il proprio bisogno di isolamento culturale ed economico. A rifiutare il cambiamento, per preservare la sua buona e virtuosa “vecchia maniera”, in nome di un mondo che forse non c’è (e non ci sarà più), ma che risuona assai più perfetto di quello contemporaneo. Al di là della storia, che idealmente dice il contrario, la realtà sembra così vincere sull’immaginazione: combatti l’immigrazione, la concorrenza sleale, l’invasione culturale. E, se non puoi vincere questa guerra, ritrova te stesso lontano da te. Guarire è uguale a fuggire. Non esattamente il messaggio di integrazione che, crediamo, abbia ispirato il film.