Cos’hanno in comune, tra alcuni altri, Jesus di Carl Theodor Dreyer (1889-1968), Heart of Darkness di Orson Welles (1915-1985), Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet di Federico Fellini (1920-1993), Napoleon di Stanley Kubrick (1928-1999), Leningrado di Sergio Leone (1929-1989) e L’idiota di Andrej Tarkovskij (1932-1986)? E cosa unisce invece, a solo titolo di esempio, i relativamente più recenti Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese, Alexander (2004) di Oliver Stone, The New World – Il nuovo mondo (2005) e The Tree of Life (2011) di Terrence Malick? Semplice: i primi vanno annoverati tra i progetti cinematografici a lungo accarezzati e mai realizzati in vita dai rispettivi autori, mentre le seconde sono opere altrettanto inseguite più o meno lungamente e giunte prima in lavorazione e poi in sala (forse) fuori tempo massimo quanto a freschezza anagrafica dei loro registi rispetto a quando ne avevano inizialmente concepito l’idea.



Nella serata di domani, sabato 19 maggio, dopo la cerimonia di premiazione della 71ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes prevista alle ore 19:15, la proiezione del film di chiusura in programma alle ore 20:45 sancirà finalmente, dopo ventotto anni, il passaggio da un gruppo all’altro per il tanto atteso The Man Who Killed Don Quixote (2018, 132′) del disegnatore, animatore, scenografo, attore, sceneggiatore, regista e produttore cinematografico (e membro dei Monty Python) Terry Gilliam, statunitense di nascita (Medicine Lake, Minneapolis, 22 novembre 1940) ma britannico d’adozione (naturalizzato nel 1968 e cittadino dal 1988, ha rinunciato a quella a stelle e strisce nel 2006). La pellicola è senza dubbio il suo progetto più amato e, nel contempo, rappresenta(va) la ferita più dolorosa della sua carriera: è davvero una bellissima notizia sapere che verrà rimarginata tra non molte ore attraverso un fascio di luce proiettato nel buio di una sala prestigiosissima come il Grand Théâtre Lumière, la prima in assoluto al mondo ad accoglierla per ferma volontà del direttore Thierry Frémaux.



Era l’ormai lontano 1990 quando Terry Gilliam e Charles McKeown – il co-sceneggiatore di Brazil (1985), Le avventure del barone di Münchausen (1988) e Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo (2009) – stesero il primo trattamento di questo film (che allora vedeva Nigel Hawthorne nei panni di Don Chisciotte e Danny DeVito in quelli di Sancho Panza), entrato in produzione una prima, disastrosa volta nel 2000 (con Jean Rochefort e Johnny Depp), poi riesumato e naufragato rovinosamente almeno altre cinque (2008, 2010, 2013, 2014, 2015) con sempre nuovi attori in lizza per i due ruoli principali (in ordine sparso: Robert Duvall ed Ewan McGregor, John Hurt e Jack O’Connell, Michael Palin e Gérard Depardieu). Le incredibili traversie del primo tentativo sono documentate dalle riprese effettuate per quello che doveva essere il più classico dei making of da inserire tra gli extra del DVD a venire, poi uscito come lungometraggio autonomo con il titolo Lost in La Mancha (2002): come scrive lo stesso regista nel suo “Gilliamesque. Un’autobiografia pre-postuma”, «[l]a cosa buffa fu che quando le cose cominciarono a mettersi male davvero, i registi del documentario – Louis Pepe e Keith Fulton, la squadra vincente di The Hamster Factor [il backstage sulla lavorazione di L’esercito delle 12 scimmie (1995), ndr] – volevano mollare tutto e tornarsene a casa. “Non fate i cretini e continuate a girare”, dovetti gridargli, dal profondo della mia sconfinata disperazione. “Magari non avrete un documentario su come nasce un film, ma almeno avrete un documentario su come muore, che potrebbe anche essere più interessante”».



Secondo una prima sinossi ufficiale della nuova versione dello script, firmato da Gilliam e Tony Grisoni, il co-sceneggiatore di Paura e delirio a Las Vegas (1998) e Tideland – Il mondo capovolto (2005), la storia prende le mosse da Toby (Adam Driver), un tempo giovane studente di cinema pieno di ideali che aveva deciso di girare una pellicola tratta dalla storia di Don Chisciotte in un grazioso villaggio spagnolo e poi diventato un pubblicitario arrogante e stanco, corrotto da denaro e lustrini. Mentre si trova in Spagna, dove ha finito di girare uno spot, si destreggia tra Jacqui (Olga Kurylenko), la moglie del proprio capo (Stellan Skarsgård), e il suo vorace ego. Quando una misteriosa zingara gli fa visita portando con sé una vecchia copia del suo film da studente, decide di andare in cerca del villaggio dove aveva girato molto tempo prima e scopre così che quanto fatto ha avuto effetti terribili su questa tranquilla località: Angelica (Joana Ribeiro), una ragazza piena di innocenza, è ora una squillo d’alta classe, e l’anziano che ha interpretato Don Chisciotte (Jonathan Pryce) è impazzito, convinto di essere il vero Caballero de la Triste Figura. Quando un incendio minaccia di distruggere il villaggio, Toby, ricercato dalla polizia, viene “salvato” dal vecchio pazzo, che lo prende per il suo scudiero Sancho e lo trascina in cerca della moglie perfetta, Dulcinea, in un viaggio in cui realtà e fantasia si fondono di continuo.

«Il libero adattamento del capolavoro di Cervantes sembrava un terreno perfetto per esaltare, oltre che il talento visivo, i temi che da sempre animano l’opera di Gilliam: i contrasti tra individuo e società, quelli tra fantasia e realtà, i viaggi nel tempo e la satira» (Federico Ferrone): a nove anni dalla presentazione fuori concorso sempre a Cannes del suo Parnassus, è giunto il momento di scoprire cosa ci ha riservato l’ingenioso hidalgo Terry Gilliam.