Nel cinema di Paolo Sorrentino le parole, le frasi sono un correlato fondamentale nella comprensione delle immagini spesso abbacinanti. Partendo dalle frasi di lancio di Loro, la sua ultima fatica divisa (purtroppo, perché il film è un unico crescendo) in due parti: “Tutto vero, tutto falso” e “Tutto non è abbastanza”. Perfette descrizioni di Berlusconi, il cuore del suo film, doppiamente perfette perché inscritte in una strategia di marketing e per il cavaliere il marketing era tutto, l’unica cosa che contava, l’unico lavoro che abbia davvero saputo fare. Vendere e vendersi. 



Sorrentino non vuole raccontare la biografia del Cavaliere, ma indagarne l’essenza attraverso il rapporto con Loro, appunto (per i quali è LUI, maiuscolo, senza nome, quasi come una divinità) e assieme al co-sceneggiatore Umberto Contarello sceglie il periodo tra il 2006, dopo la sconfitta con l’Ulivo di Prodi, e il 2009, dopo il ritorno al governo e con l’emergenza terremoto di L’aquila. 



Nel rapporto tra LUI e Loro, tra Berlusconi (un Servillo che è un fuoco d’artificio: memorabile il suo dialogo con Ennio Doris, interpretato dallo stesso attore napoletano) e il proprio elettorato, ma anche tra Sorrentino e i propri spettatori risiede il lavoro del film: raccontare la mitologia berlusconiana colta nel suo declino, nella sua decadenza e metterla in scena attraverso la propria stessa estetica, attraverso l’utilizzo del kitsch ovvero del volgare che si crede sublime, della bassezza etica che si erge a paladino del paese. 

Sorrentino rielabora visivamente le connotazioni estetiche del mondo del bunga bunga e le usa – attraverso un utilizzo schietto e spesso irresistibile di humour e ironia – contro loro stesse per inchiodarle e inchiodare così gli italiani, spettatori di uno show, di una continua televendita, “di una lunga, ininterrotta messinscena” con la quale Berlusconi ha ottenuto e conservato il potere, lo ha riconquistato quando sembrava perderlo, cambiando pelle e maschera. 



Ma in 200 minuti di film, mirabilmente costruiti per ricchezza di personaggi, di invenzioni visive e narrative, di densità di situazioni e complessità di toni e risvolti, con molte scene memorabili, Loro è anche un caleidoscopio che mette in mostra le qualità del cinema di Sorrentino che si condensano soprattutto in una: utilizzare le immagini non come specchio narcisistico, come sostengono i detrattori, ma come veicolo per il pensiero, partire dalla sontuosità tecnica ed estetica innanzitutto per ipnotizzare lo spettatore, per catturarlo in un flusso calibrato e sempre più vorticoso, e poi per comunicare con lo spettatore. Loro in questo senso è un punto di non ritorno in un certo senso del suo cinema: perché qui il contenuto narrativo e politico è noto, il cosa si voglia dire all’interno del film è stato sviscerato da lustri, ma Sorrentino riesce a dire qualcosa in più, e a dirlo in molti casi meglio proprio grazie all’uso dell’immagine e del montaggio, di colori, luci e suoni, grazie all’uso del cinema. Anzi fa qualcosa di ancora più ardito. 

Le sue immagini sono pura superficie scintillante che racconta di mondi brillanti e superficiali: Loro prende gli abissi del mondo di Berlusconi e vi fa specchiare dentro i suoi protagonisti, arrivando a una profondità inaspettata, alla ricerca di un’umanità paradossale e improbabile, in cui l’amore e la disperazione contano come e più che in ogni individuo (bellissima la scena della giostra con Fabio Concato, come doloroso è il distacco con Veronica Lario), ma sono spazzati via dal bisogno di potere, dalla compravendita come mezzo di battaglia politica. 

Non fa politica con le parole Sorrentino (e quando vi accenna trova i momenti meno forti del film), ma utilizza il cinema, l’immagine giustamente rendendo la politica uno spettacolo visivo e facendo del senso di Berlusconi per lo spettacolo, per la pantomima, la canzone, la commedia dell’arte il suo passepartout politico. E dietro le apparenze di un film che non racconta “niente di nuovo”, si mostra la fragilità di un mogul, dei suoi compari (tra cui spicca un bravissimo Riccardo Scamarcio, alias Gianpaolo Tarantini) e di Loro, ovvero noi, quegli italiani che aspiravano a lui, che ne hanno costruito l’importanza anche combattendolo, mai capendolo. Come invece, forse senza volerlo, ha fatto Sorrentino.