In una storia che trasuderebbe vendetta, violenza, disagio mentale, atrocità fisiche degne del migliore (o peggiore) torture porn, Matteo Garrone scopre la dolcezza, la disperazione intima, un’insospettabile pietas sociale. Dogman è un film che il regista voleva fare da molti anni e che col tempo è cambiato, come una cosa viva si è evoluto, ha preso un’altra forma.
Ispirato alla vicenda del Canaro, clamoroso fatto di cronaca della Roma anni 80, il film racconta di Marcello, un tolettatore di cani dell’estrema periferia e piccolo spacciatore, e di Simoncino, il violento bullo del quartiere. Quando il primo fa da complice al secondo per una rapina, il loro rapporto deflagrerà.
Garrone assieme a Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, con la collaborazione dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza), depura il fatto di cronaca dalle sue componenti splatter e ne trae un dramma sociale e intimo centrato sul rapporto tra uomo e spazio. Dogman, infatti,riflette sulle relazioni tra l’essere umano e i luoghi che lo circondano e su come esse influenzino di conseguenza le reazioni degli altri uomini: in un luogo di frontiera come il Messico dei western contemporanei, costruito come uno spazio metafisico, livido e monocromo dalla fotografia di Nicolai Brüel, Marcello e Simoncino rispondono in maniera opposta alla desolazione visiva, che si traduce in un contrasto insanabile tra relazione e reazione, tra necessità di essere accettati, di fare parte di qualcosa e voglia di emergere, di essere il primo.
Nonostante gli accenti pasoliniani – in primis nel perfetto corpo attoriale di Marcello Fonte -, il determinismo sociale passa in secondo piano rispetto allo scavo umano che riduce la questione, proprio come in un western, a un duello: ed è qui che Garrone trova la dolcezza e la pietas, guardando a fondo nel suo protagonista, mettendo a nudo attraverso la violenza il suo animo, dando una costruzione dolorosa al contesto e alle sue azioni.
Garrone scarnifica tanto il racconto quanto la messinscena, prende il contenuto de L’imbalsamatore (che di questo era la prova generale) e la forma di Gomorra e ne mostra gli scheletri raccontando, prima di tutto, la solitudine infinita, metafisica come i suoi luoghi, di due uomini che vivono e agiscono per gli occhi di qualcuno, per suscitare una reazione, mai come individui, dando un segno tragico alla quotidianità.
Dogman è così una parabola scabra, dal passo dolente come il finale di un film di Peckinpah, che lavora sui suoi elementi formali mostrandone l’essenza, rispettandola, così come fa con gli esseri umani, mai osservati ma sempre accompagnati. Con comprensione ed empatia, con paradossale dolcezza, nonostante tutto.