Il tempo si è fermato in Lazzaro felice, per Lazzaro e per la sua comunità. E il riferimento al film di Ermanno Olmi non è casuale perché il nuovo film di Alice Rohrwacher è anche un sentito e caldo omaggio al cinema del maestro da poco scomparso e a un modo popolano di pensare al cinema e agli ultimi (Sergio Citti, il Bertolucci di Novecento). Qui gli ultimi sono un gruppo di contadini che lavora in regime di mezzadria e schiavitù per una marchesa la quale ha sfruttato la loro ignoranza per far loro credere che – negli anni ’90 del ‘900 – fosse ancora possibile. Tra di loro Lazzaro, un ragazzo buono fino all’ottusità che sarà però anche il protagonista di un curioso viaggio nel tempo. 



Come si intuisce dalle poche righe di trama, Rohrwacher ha scritto una sorta di fiaba verista nettamente divisa in due tra passato e presente, campagna e città, schiavitù e libertà (molto relativa) e quindi anche tra umori sognanti e solari e sguardo desolato. Lazzaro felice usa come filo conduttore di questi due poli opposti che lo fondano proprio il personaggio di Lazzaro (l’esordiente Adriano Tardiolo) incapace di cambiare come indole e come fisico, che “vola” lungo vent’anni – con un imprevedibile salto narrativo – e resta inalterato, mentre tutto si deteriora, dalle persone ai valori. E Rohrwacher utilizza il suo protagonista anche come metro, come indicatore di tono, come cartina di tornasole di ciò che vuole comunicare e del modo per comunicarlo adattandosi a lui in modo coerente e totale, con tutti i rischi narrativi che ne conseguono.



Ma la regista affronta questi rischi dotata di un’apertura visiva e visionaria spesso incantevole, come tutta la prima parte rurale dimostra tra cavalieri, leggende francescane e folate di vento, e che se anche cede qualcosa nel racconto urbano riesce a commuovere anche con un semplice movimento di macchina sul volto di Lazzaro, raccontando il rapporto tra passato e presente con grande delicatezza. 

Lazzaro felice (e la sua regista) rappresentano uno di quei rari casi in cui cinema e mondo, lo sguardo sulla vita e dentro la macchina da presa, sono la stessa cosa e si svelano a vicenda in modo spiazzante e impossibile: fosse anche solo per questo ad Alice Rohrwacher si possono perdonare piccole cadute e difetti.