1931. Henri Charrière, abile scassinatore della malavita parigina, viene ingiustamente condannato all’ergastolo per un omicidio che non ha commesso. Viene così inviato nei temuti campi di lavoro della colonia francese in Guyana, luoghi senza legge e rispetto per la vita umana. In un severo regime carcerario, Henri conosce Luis Dega, un ricco uomo d’affari, colpevole di falsificazione, a cui promette protezione in cambio di denaro con cui avrebbe potuto “pagarsi” l’evasione. Quella che inizialmente sembra essere un puro e semplice matrimonio di interessi, si trasforma presto in un’amicizia sincera che darà forza e speranza a entrambi, dando loro un motivo in più per sopravvivere in un luogo dannato e dimenticato da Dio.



Non c’è davvero nulla di nuovo in questo film, replica ammodernata del Papillon degli anni ’70, interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman.  Un grande classico del passato, quello del 1973, mai travolgente e forse un po’ trascinato, nonostante la presenza di due grandi interpreti. Un lunga storia di violenza che trova, nella sua versione più recente, un po’ più di ritmo. Ma nel frattempo il cinema è cambiato. Da allora abbiamo apprezzato diversi film carcerari, diversi modi di trattare la violenza, i soprusi, l’ingiustizia, l’amicizia virile, la denuncia sociale. Chilometri di pellicola, quando ancora c’era, e terabyte di riprese digitali hanno educato la nostra sensibilità e il nostro gusto. Hanno elevato gli standard, il nostro limite di sopportazione e di meraviglia. 



Hunger, di Steve McQueen regista, con Michael Fassbender, per citarne uno. Il nuovo Papillon riporta la nostra attenzione su una storia che merita di essere ricordata, e forse è questo l’unico, modesto, merito di questo film. Un esempio di coraggio, forza di volontà, quello di Henri Charrière. Un modello, negativo, di carcere punitivo, oltre il buonsenso. Disprezzo, umiliazione, rancore. Ma anche fedeltà, tra due uomini che si trovano a essere prima alleati, poi amici, poi come fratelli. Due uomini che arrivano a rischiare la vita per l’altro. 

Papillon prova a raccontarsi alle nuove generazioni, ma lo fa senza grande appeal. A nulla serve la presenza di Charlie Hunnam, attore più bello che bravo e mai completamente credibile, né del suo compagno di avventura, Rami Malek, che emana fragilità fisica e simpatia, senza mai prendersi la scena. Mentre la regia di Michael Noer, già autore del premiato dramma carcerario R, suona fin troppo classica e prevedibile. Uno stile narrativo che non colpisce né per originalità, né per intensità. 



La tensione c’è, ma è debole. La sofferenza c’è, ma è scontata, già vista, necessaria e inevitabile. I personaggi sono quelli che ognuno di noi può richiamare dalla sua memoria cinematografica. Personaggi che fanno esattamente quello che ci aspettiamo facciano in un film carcerario. Torture, soprusi, sfide personali, violenze. Direttori di carcere, secondini, vittime e carnefici. Tutto perfettamente da manuale.

Il nuovo Papillon non aggiunge nulla di importante, rispetto a quanto visto venticinque anni fa. Dopo due ore di sfidante sopravvivenza, rimane la pietà per l’umanità umiliata, secondo modelli carcerari disumani e spietati e l’ammirazione per un’amicizia profonda, vitale, sincera, vissuta nelle condizioni più estreme immaginabili. Davvero poco per meritarsi l’attenzione del pubblico, come della critica.