Era il 1943 quando Giovanni Guareschi venne imprigionato in un lager costruito dai nazisti a Czestochowa. Fu lì, in quell’occasione che lo scrittore scoprì il suo talento, scoprì di essere un grande narratore. “Mio papà raccontava storie e comunicava la speranza di potercela fare. Credo che molti compagni di prigionia si siano salvati, non si siano lasciati andare proprio per aver ascoltato le storie che raccontava”. Queste le parole del figlio Alberto che, dopo la morte della sorella Carlotta nel 2015, è l’unico custode del lavoro del padre e che oggi, a cinquant’anni dalla scomparsa, lo ricorda. Una sua frase diventò molto celebre: “Non muoio nemmeno se mi ammazzano”, ed è vero. Perché nelle righe dei suoi libri, dei suoi racconti risiede l’anima dello scrittore. I suoi testi sono stati tradotti in 350 lingue, “compreso lo swahili da un missionario che operava in Africa – spiega il figlio Alberto – e l’afrikaner. C’è “Don Camillo” scritto in islandese, in un’edizione rilegata con pelle di foca. Quattro anni fa è stata fatta una traduzione del cui capolavoro in albanese”. Tra tutte le lingue si può dire manchi proprio il cinese, perché, spiega il figlio, le autorità non lo hanno ancora permesso.



IL MANOSCRITTO MAI PUBBLICATO

Molte volte Alberto Guareschi accoglie scolaresche o gente comune che ha amato le parole del padre: “I lettori che sono stati colpiti dalle storie di Don Camillo arrivano anche dall’estero, in particolare dalla Francia e Germania. Poi ci sono le scolaresche, a partire dalle elementari perché alcuni lavori si presentano anche a essere rappresentai, come La favola di Natale”. Alberto si occupa dell’archivio dove si trovano circa 200 mila documenti, “compresa la raccolta completa della Domenica del Corriere che mio papà utilizzava come ora si usa Google, per documentarsi un po’ su tutto e controllare le notizie. Ci sono buste che contengono ritagli e altri documenti che mio papà archiviava e usava per scrivere i suoi articoli e libri”. Il figlio racconta che tra tutti i testi solo uno non è stato pubblicato, “Stefania tra i Boeri”: “Lo abbiamo letto solo in tre, io, mia sorella e Francesca Pesci, l’autrice di una tesi di laurea. Esistono due stesure e una di queste è conservata da una persona che non intende divulgarla”. Una decisione presa dal padre a causa di un gesto dell’ex direttore del Corriere della Sera, Aldo Borelli, che gli restituì il manoscritto con un gesto che non gli piacque.

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