Michael Sullivan, figlio di uno stimato diplomatico, ucciso quand’era ancora bambino, sogna da sempre di entrare a far parte dell’Onu. Dopo diversi e vani tentativi, viene finalmente assunto a gestire un ambizioso programma di sostegno internazionale alla popolazione irachena, provata dalle sanzioni nei confronti del Paese, guidato da Saddam Hussein. Al suo fianco, Benon Sevan Pasha, Segretario Generale delle Nazioni Unite. Oil for food, questo il nome del programma, rivelerà dei lati oscuri che metteranno alla prova l’idealismo di Michael, convinto del nobile e indiscutibile valore della diplomazia sociale. Dovrà tacere o denunciare l’accaduto al Mondo?
“La prima regola in democrazia è che la verità non deve basarsi sui fatti, ma sul consenso generale”. Queste le parole del Segretario Generale dell’Onu, Ben Kingsley, al suo giovane adepto. Parole che suonano alquanto inquietanti e attuali, in Italia e nel mondo. In un mondo al contrario, in cui le Ong sembrano (sulle pagine di cronaca e di politica interna) essere dalla parte degli interessi e non da quella degli uomini, ecco uscire, nelle nostre sale, Giochi di potere, un altro film scomodo, che ragiona attorno al potere e alla sua fragile giustizia. Racconta una macchia, indelebile, nella reputazione delle Nazioni Unite: Oil for food. Ovvero petrolio, in cambio di sopravvivenza. La storia, e questo film, ci racconta cosa non è andato. E ci racconta come, dietro ai grandi interessi, ci sia sempre un necessario compromesso, che a volte funziona, a volte un po’ meno. A volte porta bene, o allontana il male. A volte porta male, con la firma del bene.
Nelle alte sfere degli organismi umanitari, le vite diventano numeri, la pietà diventa racconto, la giustizia diventa una chimera. La specie umana produce mostri, che combattono al tempo stesso uno contro l’altro e uno al fianco dell’altro, in uno scacchiere strategico pericolosamente indefinito. Oil for food è stato uno scandalo. Uno dei tanti. Ci insegna che non esiste il bene e il male assoluto. Esistono uomini. Esistono battaglie. Esistono ideali. Esistono interessi. Ed esistono Istituzioni. A volte, quando va bene, cercano il male minore. Quando va male, cercano il bene per sé.
Per Fly, regista danese, confonde le acque, svela misteri, denuncia fazioni e conclude che gli uomini fanno sempre la differenza, per cambiare, o per rimanere dove si è. Vero. Buoni spunti e poco più. Perché Giochi di potere non riesce a essere un bel film. La regia è classica, ordinaria, prevedibile. La storia è fin troppo dimostrativa. Celebra il sogno infranto del bravo ragazzo, che trova quello che non si aspettava. Realtà romanzata che pare poco credibile. Addizionata di una più che superflua lovestory. Un’inchiesta che si fa thriller e fragile melodramma.
Fly, alla fine, argina lo scetticismo diffuso (nel film, come nel mondo e come in Italia), per riconoscere spazi di verità, lealtà, coraggio. Per dare speranza di cambiamento. Offre modelli positivi, che hanno una propria funzione, quasi educativa. Ma l’approccio narrativo rischia di ridurre la complessità, opponendo all’uomo malvagio, l’eroe. L’eroe, puro di cuore, serve lo spettacolo, l’epica, la memoria, l’identificazione. L’eroe piace. Trascina. Ma serve anche un popolo, più reale del re. Un popolo fatto di attori, pronti a fare la propria parte. Oltre l’apparenza. Oltre il consueto. Oltre la superficie. Oltre la semplificazione dei fatti o, peggio, la mistificazione. Un popolo che esprima consenso, o dissenso. E che ritrovi la voglia di impegnarsi, oltre all’essere spettatore. Che riscopra una propria coscienza. Di verità e giustizia.
Non è il film però che ispira questo sogno di cambiamento, quanto la realtà, storica e corrotta, richiamata dal film. Una realtà di politicanti fragorosi che, tutt’attorno, vuole rifare la democrazia. È finita la pacchia. Ma quale?