«Truman. Puoi parlare. Ti ascolto» «Chi sei tu?» «Sono il creatore di uno show televisivo che dà speranza, gioia e ispirazione a milioni di persone.» «Allora io chi sono?» «Tu sei la stella». «Non era vero niente?» «Tu eri vero. Per questo era così bello guardarti. Ascoltami, Truman. Non c’è più verità là fuori di quella che c’è nel mondo che ho creato per te. Le stesse bugie, gli stessi inganni. Ma nel mio mondo non tu non hai niente da temere […]».
Cinema e televisione: grande e piccolo schermo, fratello maggiore e minore, elefante e topolino, e via di questo passo. Molti sono i dualismi che si potrebbero istituire sul tema. Ma di certo ne è passato di tempo da quando era la seconda a rincorrere il primo – ovviamente sul piano dell’originalità delle idee, non certo della vastità del pubblico -importando contenuti e copiando trame, con budget nemmeno lontanamente paragonabili tra loro e risultati proporzionalmente scarsi. Poi è arrivato il momento in cui tale rapporto ha cominciato a profilarsi come perlomeno tra pari, quando il cadetto ha smesso di misurarsi sullo stesso campo del primogenito, accettando e abbracciando consapevolmente la sua prima, grande potenzialità, ovvero la serialità (aspetto dietro il quale si poteva volentieri rinvenire quell’originalità che andava cercando): era il principio degli anni Novanta del secolo scorso e le prime due stagioni di Twin Peaks (1990-91) segnavano indelebilmente un modo nuovo di fare fiction sui familiari schermi di casa. In questi ultimi anni si sta invece ormai assistendo in non rari casi quasi a un sorpasso (fino a un certo punto sorprendente) dovuto alla sempre più capillare e tecnologicamente avanzata diffusione della Rete (si vedano i casi di Netflix e Amazon) e in presenza di budget decisamente più consistenti rispetto al passato.
Anche il cinema non si è sottratto al tentativo di mettere davanti alla macchina da presa questa relazione, in pochissimi, eccezionali casi – come quello della pellicola in questione – addirittura anticipando quella che sarebbe stata la realtà a venire: vent’anni fa, in occasione della 55ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, veniva infatti presentato fuori concorso, nella sezione “Notti e stelle”, The Truman Show, scritto da Andrew Niccol, diretto da Peter Weir e interpretato da Jim Carrey, un film tanto amato dal pubblico quanto celebrato dalla critica.
Una località balneare da sogno è in realtà un gigantesco studio televisivo dove le circa cinquemila telecamere gestite dalla troupe di Christof, ideatore e regista della rivoluzionaria trasmissione, riprendono da trent’anni anni (e a sua insaputa) la vita di Truman Burbank, protagonista (e unica figura genuina) di un reality show in diretta mondiale, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni alla settimana… Per come presentata nell’incipit, quella di Truman sembrerebbe la vicenda di un ignaro “uomo qualunque” che vive, dorme, lavora, mangia, soffre e invecchia nella “sua” Seahaven Island. Ma la memoria di un incontro (due occhi che per la prima volta nella vita lo hanno guardato con sincerità e affetto) e l’imprevisto (che rappresenta l’imprescindibile categoria delle possibilità che la vita reale, per sua stessa natura, offre) daranno il via a un cammino per lui del tutto nuovo: ed ecco servita in uno dei titoli più rappresentativi di quel decennio l’inquietante parabola di un “true man”, un “uomo vero” alle prese con la scoperta più sconvolgente della sua esistenza.
«[…] [P]roprio la più ideale delle comunità, creata grazie alla congiura della tecnologia mediatica più raffinata e delle migliori intenzioni ideologiche (Christof ha le idee chiare in proposito: il mondo “là fuori” è malato, Seahaven è “come il mondo dovrebbe essere”), ha prodotto un individuo, Truman, infelice e desideroso soltanto di fuggire da quel “paradiso”. […] Seahaven è una città funeraria, una necropoli dell’individuo e della passione individuale; rappresenta una delle raffigurazioni cinematografiche più radicali dello stato vegetativo a cui si è ridotta la società occidentale affluente, che ha risolto ormai ogni bisogno materiale ma che ha smarrito l’idealità, il sentimento e l’emozione: in una parola, l’anima. L’unico abitante autentico (nel senso che non sa che si tratta di un trucco) di questo “paradiso” è proprio Truman; ma, paradossalmente, è anche l’unico essere vitale. Infatti, tutti gli altri abitanti della cittadina, comparse e attori, sembrano trovarsi a proprio completo agio in una comunità che, in fondo, non è molto dissimile da quella reale in cui risiedono quando non lavorano: è solo più “realizzata”. In altre parole, il grande set che è Seahaven […] riproduce quel set ben più ampio che è diventato il mondo “là fuori”. Truman è l’unico ribelle a questa utopia negativa: Christof deve inventarsene continuamente di nuove per trattenerlo. […] Il fatto è che l’individuo umano, ci dice Weir, è una cosa assai più grande di ogni piano o schema che pretenda di ingabbiarlo, di ogni movimento di dolly che intenda circoscriverlo, di ogni copione che pretenda di dettarne la storia» (Alberto Morsiani).
Un apologo audiovisivo di poco più di 90 minuti che conviene davvero riscoprire e rigustarsi fino all’ultima inquadratura, in un tempo in cui in molti potrebbero avere barattato le genuine libertà (che rende più autentici, se fedeli nel darle spazio) e realtà (che i soli occhi possono anche non cogliere) per le tante, troppe “celle” delle nostre supposte (finte) libertà e realtà, che alla fine presentano il conto: benvenuto nel mondo reale, “uomo vero”.