Dopo il clamoroso successo ottenuto all’esordio con Babadook, che ha incassato addirittura il doppio delle sue spese di produzione, Jennifer Kent è tornata dietro la macchina da presa e ha presentato al Festival di Venezia 2018, nel concorso principale, The Nightingale. Un lungometraggio molto atteso, con l’australiana che è l’unica regista donna presente nella selezione principale ed è considerata una delle personalità di spicco della new wave horror. La sua ultima fatica non è propriamente un horror, ma piuttosto un thriller: siamo nella Tasmania del 1825 e Clare, una detenuta irlandese, vuole vendicarsi a ogni costo di un ufficiale britannico che, insieme a due sottoposti, le ha inflitto un terribile atto di violenza. La giovane attraversa la selvaggia foresta insieme alla guida aborigena Billy per portare a termina l’impresa. Lo schiavo a sua volta deve fare i conti con un tragico passato e affronteranno numerosi ostacoli nel corso del loro cammino…



Una storia di violenza raccontata da una prospettiva femminile, ma anche un film di denuncia politica con le violenze perpetrate dai britannici nei confronti del popolo australiano e, in particolare, degli aborigeni. La colonizzazione del Paese oceanico è stata infatti traumatica, con la terra strappata con la forza a chi lì ci è nato e vissuto. Una violenza che troviamo ancora oggi, nel Ventunesimo secolo, e nonostante l’ambientazione ottocentesca possiamo considerarlo tranquillamente e tremendamente attuale. Il sangue non manca, ma da questo punto di vista la Kent fa un passo indietro: i sentimenti e le emozioni della protagonista, l’ottima Aisling Franciosi, catalizzano l’attenzione e la trama si sviluppa attorno a lei e al suo fedele aiutante.



Dal punto di vista prettamente registico, Jennifer Kent fa un salto di qualità rispetto a Babadook: la macchina da presa esplora il malessere e allo stesso tempo la voglia di rivalsa di Clare, disposta a perdere la vita per raggiungere il suo scopo. La fotografia di Radek Ladczuk ammalia l’occhio dello spettatore, mentre tra i punti deboli troviamo sicuramente i costumi di Margot Wilson. Lodevole la scelta di utilizzare dialoghi in tre lingue (inglese, palawa kani e gaelico), così come l’inserimento di numerosi spot divertenti per fare vivere allo spettatore un’altalena di emozioni. Un po’ deludente il finale del film, date le premesse. Ricapitolando, ci troviamo sicuramente di fronte a un buon film, con Jennifer Kent che sembra farsi trascinare dal punto di vista commerciale, distanziandosi da uno spumeggiante esordio indie.

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