I plot twist, ovvero gli spiazzanti colpi di scena finali per cui è famoso M. Night Shyamalan, a volte colpiscono di sorpresa anche lo stesso regista: quando nel 2000 realizzò Unbreakable non aveva in mente di realizzare un seguito e probabilmente anche durante la scrittura di Split nel 2016 l’idea non era quella di creare un filo con il precedente film, se non per quel plot twist finale, appunto. Legati i due film mancava una chiusura all’estemporanea trilogia: quella chiusura è Glass.



Il film vede il serial killer dalle multiple personalità e dalla forza sovrumana (interpretato da James McAvoy) di Split lottare contro l’uomo indistruttibile di Unbreakable (a interpretarlo torna Bruce Willis). Entrambi vengono presi però dalla polizia e rinchiusi in un istituto psichiatrico, nel quale una dottoressa cercherà di convincerli dell’idea di essere dei supereroi o dei supercattivi. Senonché in quello stesso istituto dimora la mente geniale di Mr. Glass (Samuel L. Jackson).



Shyamalan chiude quindi il cerchio aperto quasi 20 anni fa con un film di supereroi che è soprattutto, seguendo il filo di Unbreakable e rendendolo ancora più radicale, un dramma psicologico da camera – visto che buona parte è chiusa dentro le mura della clinica – e una riflessione metalinguistica sul ruolo che il fumetto e i comic books hanno sulla nostra società e cultura nel momento in cui i film e le serie tv a tema monopolizzano incassi e immaginario.

Il vero campo di battaglia di Glass è la lotta tra realtà e fantasia, realismo e immaginazione, è una lotta che si combatte all’interno del film tanto come universo narrativo, quanto come artefatto e non a caso si rivolge direttamente allo spettatore: perché quello che chiede Shyamalan è un atto di fede sopra ogni cosa, sopra gli inciampi narrativi, sopra le frequenti (e ricercate) cadute di ritmo, sopra lo stacco enorme (e anche questo teorico) tra le ambizioni spettacolari e le possibilità produttive, con un budget di 20 milioni di dollari che per questo tipo di film è irrisorio.



A veicolare questa fede arriva quindi il talento di Shyamalan che è come sempre abilissimo nella costruzione delle sequenze, della tensione interna del film, capace come pochi della sua generazione (e allievo tra i più fini del magistero hitchcockiano) a lavorare sul visibile e l’invisibile, a manipolare i punti di vista e gli angoli di ripresa a fini creativi ed espressivi, prima che narrativi: il “triello” finale vale come esempio principale.

Allo spettatore quindi che sta al gioco di Shyamalan, perché come quasi tutti i suoi film personali anche Glass fa selezione all’ingresso e richiede una sospensione dell’incredulità altissima (fede, appunto), il film offre fascino ed emozioni, oltre a una serie di risvolti intimi e seriosi inusuali nel genere; ma il rischio di non stare al gioco del film è alto, e i suoi limiti sono esposti, le sue fragilità bene in vista. Come le ossa di vetro di uno dei protagonisti, e quindi potenzialmente potrebbero diventare super-poteri. Allo spettatore la scelta.