È piuttosto complesso e contraddittorio Il primo re, il nuovo film di Matteo Rovere (Veloce come il vento) che segna una delle più costose operazioni produttive degli ultimi anni – si parla di circa 9 milioni di euro – e dei progetti più ambiziosi del cinema italiano recente. Lo è per i temi che racconta e per il modo in cui lo fa.
Alla base c’è il mito di Romolo e Remo, che qui diventa la storia di due fratelli che devono viaggiare e lottare per sopravvivere, per creare una comunità e una civiltà, concetti sui quali si scontreranno fino all’assassinio che di fatto fondò Roma.
Rovere, assieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, ha voluto togliere quel mito dalla mitizzazione del cinema, dai moduli del film epico tradizionale e ne ha fatto un film d’avventure barbaro e viscerale, ma che allo stesso tempo cerca molto seriamente di dire qualcosa sui personaggi e il loro contesto.
Da questo scontro tra istintività e seriosità nasce la difficoltà di inquadrare il film, anche per un pubblico che si trova un epico film di azione e violenza raccontato con ritmo lento e spesso meditabondo che s’impenna all’improvviso, scene d’azione che inframezzano riflessioni sulla divinità in proto-latino e che soprattutto si può trovare confuso tra un film che parrebbe non avere pretese se non meramente cinematografiche e invece una serie di sottotesti (volontari?) su cui discutere, soprattutto per quanto riguarda le questioni religiose e politiche che il film mette in scena: Camillo Langone su Il Foglio dà un’interessante lettura religiosa del film, riflettendo sull’importanza della questione divina nel film, della necessità di un’entità superiore per guidare le nostre azioni.
Oppure si potrebbe pensare al modo in cui Rovere mette in scena le radici del futuro impero romano, i suoi valori ideologici, che richiamano quelli delle sue propaggini fasciste o similari, ricalcate dal senso iconografico della regia, i ralenti, il trionfalismo del corpo violento e la riduzione della “politica” a scontro fisico prima che ideale, dialettico. È quindi un film problematico Il primo re e meno male verrebbe da dire, proprio perché non univoco, ambiguo e generatore di discussioni; peccato che dal punto di vista cinematografico la resa filmica sia inferiore alle ambizioni produttive e al senso narrativo.
O meglio, Rovere – anche produttore del film – finisce quasi divorato proprio dalla sua stessa macchina produttiva, come se non riuscisse a trovare una forza epica complessiva, un centro registico che renda il film forte e appassionante al di là dei singoli momenti o isolandone gli elementi (per esempio, il talento di Alessandro Borghi o la fotografia di Daniele Ciprì); è una macchina produttiva che non diventa un film vero e proprio, che incespica per andamento narrativo, profondità emotiva, resa visiva arrivando al paradosso di un film ad alto costo in cui si sentono i limiti di un budget comunque troppo basso per le ambizioni. E anche di un afflato verso le immagini, la loro costruzione e il loro significato fin troppo grezzo rispetto al progetto iniziale: si guarda al cinema di Refn e persino a Werner Herzog, ma si resta spesso un paio di passi indietro.