Erano ormai diversi anni che il cinema italiano non osava misurarsi con progetti ambiziosi, capaci di provare a invertire la decadenza che lo caratterizza da tempo. A Matteo Rovere, regista di 37 anni, il coraggio non è mancato e con Il primo re ha realizzato un prodotto notevole costato 9 milioni di euro, cifra che per un film italiano non è comune. E tuttavia se questo film ha un merito particolare non è tanto per gli aspetti tecnici, pur pregevoli (la fotografia e i costumi innanzitutto), ma perché è un film profondamente italiano, capace di parlare di noi, attraverso la restituzione, storicamente attendibile, della tradizione che è all’origine di Roma e di quell’idea universale che i grandi come Dostoevskij ci hanno sempre riconosciuto: “L’Italia – scriveva lo scrittore russo – porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa reale organica, l’idea di una unione generale dei popoli del mondo […] il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale”.



Il primo re si misura con questa sfida, rappresentando in modo realistico ed emotivamente intenso il mito fondativo di Roma, mettendo in scena le vicende di Romolo e Remo così come ci sono state tramandate da Tito Livio, Plutarco e Ovidio, in una narrazione che ha il pregio di essere antica e moderna, in cui il mistero del dolore e del sacrificio, quale prezzo del sacro, è giocato in un rapporto drammatico con il libero arbitrio.



Che il film voglia restituirci la nostra memoria collettiva si evince sin dalla scelta della lingua originaria, quella protolatina dell’VIII sec. a.C. ricostruita attraverso la consulenza di un gruppo di semiologi dell’Università la Sapienza di Roma, nonché dalle riprese girate nel Lazio, in luoghi che ci consegnano un paesaggio incontaminato, tutt’uno con la cruda rappresentazione che ha per protagonisti i due gemelli Romolo e Remo uniti da un affetto viscerale, in un contesto segnato profondamente da un’umanità ferina e triviale, che può diventare realmente umana solo quando Dio prende l’iniziativa.



Qualcosa davvero di misterioso è all’origine di Roma, tanto che come testimonia Plutarco “Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo origine divina tale da offrire agli occhi degli uomini qualcosa di grande e inesplicabile”. Una vicenda che costituisce l’atto generativo della più grande civiltà del mondo antico, e che pertanto ha una portata dal valore universale, incarnata da due fratelli che sono espressione del diverso rapporto col Mistero e dell’impossibile indifferenza davanti a esso. Con Romolo e Remo è rappresentata l’intera umanità nel dialogo col divino. Se Romolo si concepisce come rapporto con il sacro, consapevole di quell’originaria dipendenza che è pegno di sicura speranza, “Adesso non siamo più soli“, dirà egli stesso nel momento in cui si appropria del fuoco, segno del divino; viceversa, Remo non riesce a vivere il vertiginoso rapporto con l’alterità divina, sostituendosi a Lui e sottomettendo gli altri: “Io sono il mio destino”, affermerà al colmo di quell’hybris titanica che, agli occhi del fratello, non è solo assenza di pietas, ma una mera assenza di ragione.

Ed è assecondando il volere degli dei, riconoscendo che c’è qualcosa di più grande e di più vero degli affetti terreni, che Romolo si vedrà costretto con profondo dolore a uccidere il fratello per aver quest’ultimo oltrepassato il confine sacro, segnando così l’atto di nascita di quel grande percorso di incivilimento umano, profezia di una grandezza che è proprio nella sua genesi, nello spazio lasciato all’iniziativa di un Altro, nella compagnia del divino che per Romolo è fondamento di una relazione aperta verso gli altri, capace nel tempo di generare una comunità e un popolo.

Una vicenda epica dunque, con cui i Romani si sono identificati e che ha costruito un tessuto profondo che giunge fino a noi e ci giudica. Non a caso, il film si chiude lasciando intravedere una Roma “città aperta” e inclusiva, nel momento in cui Romolo si predispone ad accogliere chiunque volesse abitare nella nuova città, indipendentemente dalla condizione sociale e dall’origine etnica, e che costituirà un fattore decisivo di quella universalità, che sempre Tito Livio in Ab Urbe condita ci conferma essere il tratto distintivo dell’origine di Roma: “Romolo offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale (verso il Campidoglio), appare circondato da una siepe tra due boschi. Ivi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi, e quello fu il primo nerbo dell’incipiente grandezza”.

Per i romani la tradizione ha generato un modus vivendi, plasmando profondamente la loro mentalità, tanto che essa ritornerà spesso nel dibattito politico. Non a caso, l’imperatore Claudio, nell’orazione tenuta nel 48 d.C., giustificava l’estensione della cittadinanza alle province e addirittura la nomina di senatori e magistrati agli stranieri con gli inizi della storia di Roma. “Un tempo – affermerà l’Imperatore – i re ressero questa città e non capitò mai che la trasmettessero ad un successore appartenente alla stessa casata. Sopraggiunsero estranei e perfino stranieri. Di modo che a Romolo successe Numa che veniva dalla Sabina, un vicino mi direte: certamente, ma all’epoca uno straniero”.

Una tradizione dunque che ha dato senso e significato alla nostra storia e che l’interpretazione di Matteo Rovere ci restituisce in modo vivo e attuale, offrendoci la possibilità di uno sguardo su noi stessi. Anche per questo siamo grati a Il primo re.