Grande cappotto nero, barba bianca corta, bel sorriso e poche, semplici parole: «Sono felice di essere qui, spero che il film vi piaccia». A vent’anni dall’uscita della sua ultima pellicola, I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), così, vent’anni fa, il 12 febbraio 1999, torna ad apparire in pubblico – non accadeva dagli anni Settanta – lo sceneggiatore e regista Terrence Malick. L’occasione è data dalla presentazione al Festival di Berlino – dove vincerà l’Orso d’Oro per il miglior film in concorso – de La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998), il drammatico racconto della conquista di Guadalcanal da parte dell’esercito statunitense tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 – vero e proprio punto di svolta della guerra nel Pacifico – da lui adattato e diretto a partire dal romanzo omonimo di James Jones (1962) e già uscito in un limitato numero di copie negli Stati Uniti.



Ma facciamo un passo indietro. È il 1995 quando a Hollywood si diffonde la notizia del ritorno di Malick dietro la macchina da presa per un nuovo film e sono moltissimi gli attori, alcuni dei quali ormai assurti al ruolo di “stelle”, che tentano di lavorare con lui: a casa di Mike Medavoy – suo vecchio agente e adesso a capo della semi-indipendente Phoenix Pictures, che produce la pellicola insieme alla 20th Century Fox – Malick organizza letture della sceneggiatura (più di duecento pagine) con Kevin Costner, Martin Sheen, Will Patton, Ethan Hawke e Lukas Haas; Edward Norton è il primo a volare ad Austin per incontrarlo e discutere un ruolo, seguito da Matthew McConaughey, William Baldwin, Leonardo DiCaprio ed Edward Burns; anche Brad Pitt, Johnny Depp e Nicolas Cage parlano con lui, ma senza alcun esito, mentre Sean Penn gli aveva già fatto sapere che avrebbe fatto qualsiasi cosa: «Dammi un dollaro e dimmi dove presentarmi», sono le sue parole incontrandolo in un bar. La passione di quest’ultimo per il progetto è decisiva: pare infatti che sia proprio lui a contattare gran parte degli altri interpreti, convincendoli a partecipare accettando il minimo sindacale.



Passiamo al 1997: nell’anno di Titanic (altra produzione Fox), tra Guadalcanal, il Queensland australiano e gli Stati Uniti, su uno dei set più ambiti della storia del cinema, la troupe è impegnata da giugno nelle riprese per complessivi 103 giorni di lavorazione (altre fonti parlano di cinque mesi). Stando ai racconti, Malick, prima di battere il ciak iniziale, fa allontanare Robert Michael Geisler e John Roberdeau – i produttori che fin dal 1988 lo avevano avvicinato proponendogli di realizzare un nuovo lavoro – e si abitua a interrompere le riprese nel bel mezzo di una scena decidendo di girare il finale anche una settimana dopo, magari con una luce diversa: «Sul set costruiva sempre la spina dorsale di una scena, ma ne lasciava sempre cinque o sei appese, non finite, dicendo “Magari le finiamo la settimana prossima”. Gli attori impazziscono, con questo sistema. Ma i risultati sono incredibili. Magari un mese dopo, al tramonto, Terry ti guarda, guarda il sole e il cielo che diventa arancione, e dice: “Oh, che bella luce, questo è il momento buono per rivisitare quella scena che abbiamo iniziato due settimane fa… sì, lo so che non si raccorda nulla, ma proviamo a rigirarla così e così…”, e il risultato è che l’attore termina la scena con scelte del tutto diverse da quelle a cui sarebbe arrivato un mese prima, perché la scena ti è maturata dentro, ti è rimasta sepolta nella testa per settimane» (Nick Nolte).



Dal febbraio 1998 e per i successivi otto mesi Malick si dedica al montaggio del film, chiudendo una prima versione di cinque ore, poi ulteriormente ridotta a circa tre, in cui trovano infine la loro via per il grande schermo – tra gli altri – James Caviezel, Sean Penn, Elias Koteas, Nick Nolte, Ben Chaplin, John Cusack, Woody Harrelson, John Savage, John C. Reilly, Adrien Brody, Jared Leto, Nick Stahl, Tim Blake Nelson, John Travolta, George Clooney e Miranda Otto. Mickey Rourke, Bill Pullman, Viggo Mortensen, Jason Patric e Lukas Haas avevano ottenuto un ruolo, ma compaiono solo nei ringraziamenti al termine dei titoli di coda, dove è citato anche Martin Sheen. Billy Bob Thornton aveva inciso una narrazione poi non utilizzata mentre Gary Oldman era stato gratificato di una parte scritta per lui poi sacrificata.

«Sarà l’Iliade di Malick» aveva pronosticato Geisler: si rivela come un «knockout visivo» che deborda dall’etichetta di war movie per trasformarsi – attraverso la guerra – in un’imponente e memorabile riflessione sull’uomo, sulla sua natura e sul suo essere nel mondo, che a Berlino riceve non solo il massimo premio, ma anche una menzione speciale al direttore della fotografia John Toll «per il suo eccezionale lavoro con la macchina da presa».