A cinque anni di distanza da Nymphomaniac, Lars von Trier è tornato: nelle sale italiane è arrivato La casa di Jack (The House That Jack Built), un film destinato a dividere il pubblico come già accaduto con la critica. Ambientata nell’America degli anni Settanta, la pellicola segue le vicende del killer Jack (Matt Dillon) e mette in scena cinque degli oltre sessanta omicidi commessi nell’arco di dodici anni. Lo spettatore vive la storia dal punto di vista di Jack, che vive ogni omicidio come un’opera d’arte in sé. E c’è un’evoluzione nel corso del film: da omicida ossessivo compulsivo, l’ingegnere che vorrebbe diventare architetto inizia a essere sempre più imprudente e disattento, spingendolo a rischiare sempre di più. I suoi pensieri vengono raccontati attraverso il confronto ricorrente con lo sconosciuto Verge (Bruno Ganz), che lo accompagnerà in un viaggio surreale…
Capolavoro: questa è la parola perfetta per commentare La casa di Jack, con Lars von Trier che si è confermato come uno dei migliori registi mai esistiti. Non è un film per tutti: lo stesso cineasta danese lo ha definito il suo lavoro più brutale di sempre e non mente di certo, basti pensare che sia la versione tagliata che la director’s cut sono vietate ai minori di 18 anni. La vita è sadica e spietata, a nessuno importa degli altri e delle ingiustizie del mondo: il messaggio è chiaro e forte, la sceneggiatura (targata esclusivamente LVT) rafforza ed elogia questo punto di vista. I cinque “incidenti”, così sono definiti gli omicidi commessi dal killer ossessionato dall’arte e con propensioni filosofiche, sono opere superbe condite da un’ironia beffarda e dallo stato d’animo di Jack che oscilla tra l’indulgente e il castigatorio.
Violenza, efferatezza e apatia: Jack è crudele, assai crudele, ma convinto che la sua arte non possa lasciare indifferenti. E fin dal primo “incidente”, vittima una donna non meglio presentata (Uma Thurman), il sangue e il torvo scorrono a fiumi: malcapitate strozzate a mani nude, un seno tagliato e utilizzato come borsellino per i centesimi, bambini uccisi come se fossero prede di caccia. E non sono questi gli aspetti più disumani della condotta del personaggio interpretato da Dillon, anzi… «Un artista deve essere cinico e non deve preoccuparsi del benessere degli umani o di Dio e la sua arte» spiega Jack, citando la teoria del valore delle rovine di Albert Speer, architetto personale di Hitler. Particolarmente stimolanti quanto provocatorie le dissertazioni sull’arte in generale, con il film costellato da citazioni: il dipinto a olio “La Barque de Dante” di Eugène Delacroix (frame utilizzato anche per il poster ufficiale), l’omaggio a Johann Wolfgang von Goethe, le strofe di Fame di David Bowie o ancora le inquadrature di Jack che, in un vicolo, tiene in mano dei grandi cartelloni come Bob Dylan in “Subterranean Homesick Blues”.
Episodico come Nymphomaniac, cupo e analitico come Antichrist, intenso come Dancer in the Dark o Le onde del destino, senza dimenticare la Katabasis che sa tanto di Melanchonia: Lars von Trier fa il suo cinema e lo fa in maniera eccellente, anche se è più di un sospetto che si tratti di una sorta di testamento. In Jack è riflesso Lars, gli omicidi sono delle opere d’arte come i film: non è un caso che nel corso di una conversazione tra il killer e Verge sulla violenza appaiono dei frame delle sue pellicole (L’elemento del crimine, Europa, Il regno e Dogville tra gli altri). Nessun autocitazionismo superbo ma la proiezione del regista sul protagonista. Von Trier vuole costruire la sua arte come Jack vuole costruire la sua casa. Il regista firma opere come il killer firma macabri delitti, entrambi alla ricerca della perfezione e del “lavoro” migliore con il passare del tempo. Arte e crimini sono la stessa cosa.
Jack non agisce per misoginia, seppur definisce le donne “stupide”, ma come sintomo della malvagità umana, proiettando su di sé i valori di un mondo dominato dal male (ogni riferimento a Donald Trump non è puramente casuale). A confermare questo punto di vista lo scorrere delle immagini di Adolf Hitler e dell’Olocausto, quest’ultimo protagonista di un parallelo a dir poco provocatorio con l’albero di Goethe. Seppur distante e intermittente, la figura di Verge è fondamentale: lui, come Virgilio de “La Divina Commedia” di Dante, accompagna Jack nel suo viaggio (mentale e non) all’Inferno. Comprensivo e rivelatorio, disincantato e dolente, Verge diventa la guida di colui che ha portato gli inferi sulla Terra: «Ho capito che volevi vedere tutto quanto» afferma rivolgendosi a Jack, colmando il vuoto nella sua coscienza.
Il commento sonoro spazia dalla musica classica al rock, dinamico e duttile come il montaggio di Molly Marlene Stensgaard. La fotografia di Manuel Alberto Claro è volutamente nichilista, ma a spiccare su tutto è la regia del danese. Le lunghe sequenze si dilatano fino ad annullare le vittime, con la macchina da presa che osserva e pedina ossessivamente Jack in ogni sua azione. Fedele al Dogma 95, privilegia la telecamera a spalla così da consentire allo spettatore di vivere con più naturalezza lo scorrere degli eventi. Esteticamente stupefacente, quanto visionario, il finale del film. Lavori ottici e filtri limitati, abbondanza di immagini di quadri risorgimentali e nature morte, fotografie, disegni e sequenze animate.
Il cineasta di Copenaghen in carriera ha firmato lavori che hanno scritto la storia del cinema, La casa di Jack è uno dei suoi film migliori e speriamo che non si tratti del suo testamento: la settima arte non può permettersi di perdere uno dei suoi esponenti principali. Immenso, brutale e inimitabile: lunga vita a Lars von Trier.