Siamo da qualche parte, in America, negli anni ’70. Jack, alla guida del suo inquietante pulmino, sembra essere la vittima passiva di una verbosa donna in cerca di grane. Paziente più del dovuto, Jack offre ripetuta assistenza alla donna rimasta in panne. Ma, in poco tempo, provocato e istigato quasi involontariamente, si trasforma da vittima a carnefice, mettendo mano al primo dei cinque omicidi o, come vengono definiti, incidenti, che lo trasformano in un freddo e cerebrale serial killer.
Correva l’anno 2011. Lars von Trier, presentando a Cannes il suo ultimo lavoro Melancholia, si lasciava andare a una riflessione poco ortodossa su Hitler e gli ebrei: “…capisco Hitler, capisco l’uomo che è un po’ pieno di male, certo sono contrario alla Seconda guerra mondiale e non sono contro agli ebrei, ma in realtà non troppo perché Israele è un problema, come un dito nel culo, fa cagare”. Seguiva una lunga scia di polemiche, l’esilio forzato da Cannes e il doppio film Nymphomaniac nel 2014. A cinque anni di distanza esce nelle sale il nuovo disturbato e disturbante lavoro del regista danese, fondatore di Dogma95, manifesto di un esasperato realismo cinematografico.
Un’opera sfidante nel suo viaggio malato verso l’inferno dantesco. Un viaggio nella mente perversa dell’inquietante protagonista, vestito da un convincente Matt Dillon, contratto e controllato serial killer dal tocco artistico. Le turbe del protagonista, dichiara lo stesso von Trier, sono le stesse che combattono fragorosamente nella sua mente d’autore. Lucide farneticazioni che si esprimono in crudeli omicidi nella storia perversa di Jack e nei crudi esercizi psicologici nella storia cinematografica del regista. Il male si trasforma in progetto, le contraddizioni si sfogano nella violenza, il delirio si esprime in azioni spietate, inutili e ingiustificate. Opere del male, rilette in una dimensione artistica. Un’espressione libera ed estetica, sganciata dall’imperativo morale, che dà pace provvisoria all’inquietudine dell’esistenza in cerca di equilibrio.
La morte diventa necessaria, un oggetto da contemplare e immortalare nell’istante della sua esecuzione, frutto malefico di un disegno infernale e infantile. Una casa da costruire, da abitare e da popolare di scheletri, cadaveri e traumi della mente.
La casa di Jack disturba la quiete dell’anima, sviluppandosi come un thriller dalle tinte horror che assolve il male, trasformato in gioco artistico, capriccio estetico e sfizio catartico. Un lungo viaggio verso la fine, puntellato da un incessante dialogo della coscienza che prende le sembianze di Virgilio, alter ego personificato del killer. Una voce dialogante che, dall’inizio alla fine, ascolta, controbatte, critica, orienta, assolve, condanna, domanda.
Cinque capitoli, in due ore e mezza di intensa attività cerebrale, accompagnati da un montaggio originale infarcito di opere d’arte e condito di sangue e fredde perversioni. L’estetica del male non risparmia nessuno, compiendo grotteschi quadretti fotografici di donne logorroiche zittite da morte violenta, di donne diffidenti amichevolmente strangolate, di madri e figli fucilati senza pietà, di donne sedotte e martoriate e di uomini ordinati in fila, cavie inermi di folli esperimenti balistici.
Un film originale che, così raccontato non sembra sprizzare di attrattiva, ma che, al cinema, coinvolge al tempo stesso la mente e il cuore dell’appassionato in cerca di stimoli e maestri di provocazione.