Gloria è una donna di cinquant’anni. Divorziata, madre di due figli, vive a Los Angeles. Passa le sue giornate lavorando strenuamente, e le sue notti sulle piste da ballo, a caccia dell’anima gemella. Sembra essere il personaggio secondario nelle vite degli altri, alla ricerca di spazio e di attenzioni che le vengono riconosciute con grande parsimonia. Quando incontra Arnold, anch’egli uscito da un matrimonio fallito, sembra riesplodere in loro la passione e la speranza in un futuro insieme. Ma rimettersi in gioco e trovare un equilibrio non è poi così facile come sembra.



Sebastián Lelio, regista cileno premio Oscar come miglior film straniero nel 2018 per Una donna fantastica, aveva già diretto Gloria nel 2013. La storia di una donna profondamente sola, nella capitale cilena, espressione sincera della sua particolare attenzione per le donne ai margini. Alcuni anni dopo Lelio rimette mano al copione, realizzando un film fotocopia, spinto dallo stesso titolo, Gloria, ma ambientato a Los Angeles e, soprattutto, interpretato dalla magistrale Julianne Moore, volto tra i più rappresentativi e virtuosi del cinema contemporaneo.



Il film è una riedizione, una reinterpretazione più che fedele. Ne ripete il senso, le scene, gli eventi. Ne cambia, in parte, il ritmo, il tono, e in qualche modo anche il messaggio. La Gloria di Julianne Moore è più fiera, più determinata, più leggera e positiva della sua copia originale, interpretata al tempo da Paulina Garcia (altrettanto brava nel descrivere una donna che ci appariva ben più anaffettiva di questa). Le sue strategie relazionali e sessuali strappano qualche sorriso e la tristezza, in quest’opera, non sfocia mai nella depressione. Gloria non trova appagamento, ma tiene alta la testa. Gode nel ballare. Spera. Esplora. Combatte.



La sua storia sembra più vitale dell’originale. Lascia aperta la porta a una felicità, anche se la felicità fatica ad arrivare. Ma lei stessa non la esclude, facendo spazio a qualche sprazzo di relazione. Certo l’abitudine alla solitudine incrosta l’anima e le sue consuetudini. Gloria non chiude la porta all’altro, ma nemmeno la apre, indurita dalle sue esigenze personali che non contemplano flessibilità.

La breve e fugace passione per Arnold, interpretato da John Turturro, protagonista di una vivace e più che convincente prova, non sfocia in nulla di concreto, trasformandosi nell’inevitabile fuga dal disagio dell’altro, facilmente insensibile all’altrui debolezza. Ma forse la fine di una relazione nemmeno iniziata non è per lei una grande perdita. Arnold non sembra certo quello di cui Gloria ha bisogno. E Gloria forse, sembra suggerire il film, cerca qualcosa che neppure esiste.

Gloria è un buon film. Nel 2013 aveva conquistato l’Orso d’argento per la migliore attrice al Festival di Berlino. Nel 2019 non credo andrà lontano. Ma la sua storia, accompagnata dalla storica e internazionalissima canzone di Umberto Tozzi al suo quarantesimo anniversario, arriverà certamente a un pubblico più ampio di allora, trascinato dallo sguardo desolato e malinconico della Moore, regina tra le grandi.