Vent’anni fa ci lasciava Stanley Kubrick, uno dei massimi registi cinematografici di ogni epoca, autore, prima che di storie filmate, soprattutto di immagini indimenticabili. Un infarto l’ha colto mentre stava terminando la post produzione del suo ultimo lavoro, Eyes Wide Shut, film molto discusso per la presunta scabrosità del suo contenuto, ma visivamente straordinario, ricercatissimo, pieno di rimandi simbolici e allegorici, testo ricco e complesso per il piacere dei malati di voyerismo filmico, pur rimanendo di patina semplice e di immediata lettura per ogni tipo di pubblico. Film che egli considerava il punto più alto della sua carriera, invero straordinaria.
Infatti, oltre a questo, ci ha regalato altri dodici lungometraggi, girati a partire dal 1953, almeno quattro dei quali da annoverare tra i massimi capolavori della storia del cinema. Ci riferiamo a Orizzonti di Gloria (Paths of Glory, 1957), 2001: Odissea nello Spazio (2001: A Space Odyssey, 1968), Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1971) e Full Metal Jacket (id., 1987). Elenco senz’altro discutibile, modificabile a seconda dei gusti, ma che indubbiamente coglie l’importanza di un autore dal grande talento visivo, di idee innovative e coraggio produttivo. Un sognatore concreto, che ha immaginato e poi realizzato gli scenari della sua ispirazione – a volte contro ogni logica – per la nostra felicità di cinefili, e per l’ideale cineteca mondiale di ogni tempo.
Stanley Kubrick nasce a New York nel 1928. Si diploma alla William Howard Taft High School nel 1945 ed entra a far parte, giovanissimo, della squadra di fotografi della rivista Look. Il passaggio alla regia è graduale ma perentorio: tra il 1950 e il ‘51 adatta due servizi fotografici a documentari filmati e li vende alla RKO, casa di produzione statunitense attenta al cinema d’autore e molto attiva nei circuiti d’essai.
La prima vera regia è del 1953 con il singolare film di guerra – in seguìto disconosciuto – Fear and Desire, pellicola a bassissimo costo circolata inizialmente solo nelle sale d’essai, con la quale Kubrick esplora a modo suo il terreno del pamphlet anti-militarista. Siamo però ancora a livello semi-amatoriale. Il salto nel cinema professionale avviene con Il Bacio dell’Assassino (1955), nel quale Kubrick mostra già alcuni dei caratteri visivi e tematici che gli saranno propri: l’osservazione, più che il racconto, di personaggi stilizzati e disillusi, impegnati a farsi del male reciprocamente.
La carriera decolla definitivamente col già citato Orizzonti di Gloria (1957), film tanto ammirato quanto osteggiato e discusso (in Francia venne distribuito solo nel 1974), caratterizzato da quello sguardo profondo e geometrico che sarà il suo imprinting stilistico. Sul suo set Kubrick incontra anche la terza – e definitiva – moglie, l’attrice tedesca Christiane Susanne Harlan, che vediamo cantare spaurita tra i soldati francesi nella bellissima sequenza finale.
Nel 1960, dopo le pressioni produttive subite durante la lavorazione di Spartacus (1960), si trasferisce definitivamente in Inghilterra Qui riesce a diventare un produttore indipendente, così da poter lavorare col tempo dovuto sui progetti che ritiene a se più congeniali. Ha allora la possibilità di sfornare il capolavoro di una vita, quel 2001: Odissea nello Spazio (1968) che, semplicemente, è il Cinema ab-soluto.
Tranne che per il primo dei suoi lungometraggi (Il Bacio dell’Assassinio, soggetto scritto con Howard Sackler), Kubrick non ha mai scritto storie originali per il cinema, ne ha sempre adattate di altre già esistenti in letteratura, scritte da autori più o meno famosi – in romanzi o cicli di racconti -; circostanza che ci indica come il nostro eroe si senta principalmente creatore di immagini, poeta dello sguardo più che narratore di storie o inventore di personaggi. Kubrick ha per tutta la carriera adottato i personaggi degli altri, adattandoli alla propria visione della vita e del cinema: folli in un mondo folle, filmati con uno sguardo distaccato, al limite del glaciale, ma al tempo stesso di straordinario fascino visivo e inimitabile precisione spazio-temporale.
Diceva infatti a proposito di Odissea che “il cinema opera ad un livello più vicino a quello della musica o della pittura che a quello della scrittura, i film offrono l’opportunità di veicolare concetti complessi e idee astratte senza servirsi in modo tradizionale della parola. In 2001, in due ore e quaranta minuti di pellicola ci sono solo quaranta minuti di dialogo”. Idea molto forte, che spiega chiaramente le scelte stilistiche complessive di tutto il suo percorso artistico, e che denota la profonda riflessione che Kubrick ha maturato negli anni sulle possibilità espressive e compositive del cinema. In questo contesto è stata cruciale, come già per altri registi (Fellini e Hitchcock erano entrambi molto dotati nel disegno a mano libera, abilità utile per comporre le inquadrature di cinema), la sua iniziale occupazione di fotografo. Segnato anche da tale imprinting, Kubrick è stato, come già sottolineato, uno dei più grandi creatori di immagini cinematografiche della storia, oltre ad avere come pochi saputo valorizzare ogni sua istanza retorico-compositiva: quella visiva, quelle metaforico/simboliche, fino a quelle più scontate, narrative e tematiche.
Grave che non abbia mai vinto l’Oscar per la miglior regia, pur avendo ricevuto per quattro volte la nomination. Forse perché ha lavorato molto lontano da Hollywood, fuori area rispetto alle stanze dei bottoni delle major produttive americane. Ma un ideale Oscar alla regia glielo conferiscono con onore, implicitamente, le indimenticabili sequenze di cui è pieno il suo cinema, che in fondo è l’unica cosa che conta davvero.