Domani su Rai 1 andrà in onda la quarta puntata della fiction “La Compagnia del Cigno”, regia e sceneggiatura di Ivan Cotroneo. La storia narra le vicende di ragazzi studenti al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. All’inizio, per le prime due puntate, la fiction aveva un po’ deluso per diverse ragioni. I tempi narrativi erano estremamente lenti per una serie televisiva, con alcune sequenze ripetute sempre uguali (tra cui le scene dell’incidente della figlioletta del maestro), troppi silenzi, troppe scene senza azione. I personaggi erano appesantiti ognuno da storie gravi e fossilizzati nel loro disagio interiore, che pareva non lasciare scampo e impediva quell’empatia tra personaggi e pubblico, che spesso crea il successo di una fiction. Si insinuava nello spettatore il sospetto che la quotidianità semplice non fosse degna di attenzione.

Effettivamente, verso Cotroneo le aspettative erano alte: sceneggiatore di film come Mine vaganti di Ferzan Özpetek e di diverse serie televisive tra le quali “Tutti pazzi per amore”, “Una grande famiglia“, “È arrivata la felicità” e “Sirene”. Era stata sua l’idea innovativa di interrompere la sequenza con momenti in cui gli attori cantavano canzoni note al grande pubblico, creando un genere narrativo nuovo per le fiction italiane.

La terza puntata, andata in onda lunedì 14 gennaio, ha segnato una svolta. Le storie tra i ragazzi si sono movimentate, sono comparsi colpi di scena (si veda l’incidente di cui letteralmente si rende vittima il maestro), i personaggi hanno acquisito delle sfumature e così, ad esempio, il maestro, soprannominato “bastardo” per la sua intransigenza e severità, si rivela un uomo capace di piangere e di incoraggiare i propri studenti. Emerge così finalmente nella sua interezza la bravura recitativa di un cast in cui la drammaturgia di Alessio Boni talora supera sì gli altri, ma non resta più isolata: tutti i protagonisti perdono rigidità e acquistano il carattere del vero, non sono più maschere ma persone.

L’idea di scegliere la musica classica come fil rouge che unisce tutte le storie poteva sembrare un’idea azzardata per un evento televisivo il cui scopo è conquistare il grande pubblico. La musica classica appare spesso come un prodotto di nicchia, che non interessa i più giovani. Al contrario, questa fiction sembra dimostrare che può non essere così. Forse non innescherà un riavvicinamento a questo genere da parte di un pubblico sempre più vasto, ma forse creerà una certa curiosità in molti e per qualcuno pure la voglia di iniziare lo studio di uno strumento.

Sono state sollevate delle polemiche sul soggetto musicale classico, definendolo “una mediocre parodia, una caricatura di ciò che è la reale vita degli studenti e dei docenti nei Conservatori di Musica”. A queste critiche ha risposto un articolo recentemente apparso su questa stessa testata. Aggiungerei solo una riflessione non da tecnico di docenza musicale, ma da spettatore. Una fiction televisiva non è un documentario e, di conseguenza, di una data realtà privilegia alcuni aspetti, ne tace altri e spesso ne aggiunge di insoliti. Questo capita con gli sceneggiati svolti in ambiente ospedaliero, dove i medici appaiono tuttologi e onniscienti e volentieri anche detective di successo. La realtà ospedaliera è ben lontana da tutto ciò: le specializzazioni e le ultra specializzazioni degli ultimi anni hanno fatto perdere ai medici l’universalità di un sapere generalistico, ma in questo modo i medici hanno guadagnato un sapere più approfondito nella loro disciplina specifica, cosa che ha loro permesso scoperte, innovazione, precisione di cure. Quello che resta nelle fiction dell’ambiente che descrivono in modo romanzesco è il messaggio di fondo: la professionalità e l’umanità, intesa proprio come empatia, nel caso dei medici (che c’è ed è reale e diffusa, nonostante certi media perseverino nel voler dimostrare il contrario) e la perseveranza, il valore che i risultati importanti siano la conseguenza di un lavoro costante e di rinunce, nel caso di studenti di musica al conservatorio.

Fa da sfondo una Milano che sembra essere stata riscattata dall’immagine di velocità, lavoro, spersonalizzazione, edilizia anonima, a cui forse nell’immaginario comune dei non milanesi era stata rilegata. Le riprese si oppongono allo stereotipo di città spersonalizzata, senza passato, solo velocità, moda, lavoro, inquinamento. Qui si vede una città che è stata talmente capace di valorizzare aree abbandonate o ex industriali da farne il nuovo skyline metropolitano, ma anche una città con la cattedrale gotica, i viali dei palazzi d’inizio secolo scorso, i parchi, le chiese di epoca medievale, i navigli, la Chinatown di via Sarpi, le case di ringhiera. Certo, in Milano c’è altro ancora da scoprire, ma questo è un buon inizio.

“La Compagnia del Cigno” sembra pertanto seguire lei stessa, nella narrazione, i tempi della musica, come se da un Largo dell’inizio, si sia passati a un Andante. La speranza è che ci aspetti un Allegretto, ma per ora la melodia è ben apprezzabile.