Se La compagnia del cigno ha dato filo da torcere al ritorno in tv di Adriano Celentano di certo qualcosa di buono deve pur averlo. Ormai sembra esserci un solido zoccolo duro che si è appassionato alle vicende dei protagonisti della fiction di Ivan Cotroneo e sarebbe certo interessante vedere quanto sono giovani, visto che la compagnia del titolo è fatta di adolescenti, i telespettatori e quanto sono venduti i sette libri (uno per ogni membro della compagnia medesima) pubblicati da Rai Libri in contemporanea con l’esordio della serie sulla prima rete di viale Mazzini.

Al di là di questo, però, mi sembra che la fiction viva di svolte che alla fine rischiano di lasciare piuttosto disorientato il telespettatore più attento. La musica dovrebbe essere pure lei protagonista, tanto che per selezionare i sette giovani interpreti c’è stato un casting con oltre 1800 provini in diversi conservatori italiani. Eppure dalla prima alla quarta puntata lo spazio per la musica (salvo i due immancabili “intermezzi” stile videoclip interpretati da uno dei ragazzi) è andato scemando. Vien da chiedersi allora che senso abbia avuto tutto questo “lungo viaggio nei conservatori italiani per il casting dei ragazzi” (parole del notiziario Rai dedicato alla fiction): non bastavano giovani attori magari più a loro agio sul set e nel calarsi in un personaggio?

La fiction – parole di Ivan Cotroneo tratte dalle note di regia – “racconta che da soli non si è nessuno. Che soltanto con la condivisione, la partecipazione, e l’amicizia si possono superare le difficoltà e i drammi della vita. Che ognuno di noi ha una ferita, pezzo mancante, o rotto, e che la soluzione ai nostri problemi è spesso nel confronto con gli altri”. Giusto, del resto tante altre fiction hanno detto e dicono esattamente la stessa cosa, a volte rivolgendosi proprio ai giovani e con qualcosa in più di un “pezzo mancante” (per esempio Braccialetti rossi, sempre in onda su Rai 1). Quello che sembra accomunare in fondo i protagonisti de La compagnia del cigno è la loro solitudine. Anche le loro famiglie, a ben guardare, amplificano questa percezione: Robbo ha i genitori in separazione, Matteo ha perso la madre, il padre di Barbara è stato giusto nominato nella quarta puntata ma non si è nemmeno mai visto, non sappiamo nulla di quello di Sofia, come neppure della madre di Domenico. Rosario, invece, una madre ce l’ha, ma vuole portarlo via dalla città e dalla vita che lui ama. Solo l’ipovedente Sara sembra avere una “famiglia normale”.

Soli questi ragazzi sembrano esserlo anche per quel che riguarda i loro coetanei: al di là dei propri compagni di corso non sembrano conoscere nessuno. Nessun amicizia, nemmeno di infanzia. Nessun rapporto (se non la povera Gloria mollata da Domenico) fuori dal conservatorio. Nemmeno per Barbara che pure frequentava anche il liceo. Nessun amico che da Amatrice cerchi Matteo. E naturalmente anche Scheggia, il fratello di Sofia, appena si scopre avere un tumore resta solo, senza ragazza, senza amici: gli resta solamente il conforto della sorella e della madre.

Più che a una compagnia, i ragazzi, per ora, fanno pensare a delle persone che si ritrovano per fare terapia di gruppo. Hanno bisogno del supporto degli altri per fare un piccolo passo importante, magari si innamorano pure tra di loro. Resta da capire chi è “l’analista” che guida queste “sedute”. Per Cotroneo la fiction “racconta anche che i maestri, che incontriamo nella nostra vita, i punti di riferimento, le guide, sono indispensabili per potere crescere, cambiare, stare in piedi da soli e guardare in faccia la realtà. Anche quando il rapporto con loro è estremamente conflittuale, come quello che i ragazzi hanno con il loro maestro Luca Marioni”. Aspettiamo di vedere questa svolta, quando i protagonisti della fiction saranno in grado di “stare in piedi da soli e guardare in faccia la realtà”. Magari attraverso una scelta del loro maestro, che vive arso di rimorsi e rimpianti, ma è pronto a mettere i ragazzi di fronte alle scelte, alle situazioni, alle paure senza sconti o edulcoranti, a partire dall’obbligo di trovarsi a suonare tra loro, obbligo che ha fatto nascere, su whatsapp, la compagnia del cigno.

E così si resta sintonizzati su Rai 1 più per senso di smarrimento e per la bravura di Alessio Boni (due metri sopra il resto del cast, nel quale non si capisce cosa ci facciano Rocco Tanica e Michele Bravi) che non per reale convinzione. Più per la curiosità di vedere dove si vuole andare a parare che non perché si è rimasti col fiato sospeso alla fine della puntata precedente, desiderosi di sapere cosa accadrà a uno dei protagonisti (a meno che non si voglia considerare un grande colpo di scena il fatto che la quarta puntata si sia chiusa con l’annuncio della moglie di Marioni, dato tra l’altro alla sua analista, di essere incinta).

Alla fiction resta comunque il merito di trasmettere un’idea diversa di Milano (salvo dipingerla nelle prime puntate come la capitale degli aperitivi con cui cenare), una città che non è solo fatturato, soldi, lavoro, come spesso viene dipinta, ma che ha anche un’anima artistica, che va oltre la musica. Evitata quindi la scivolata che si era vista in Una grande famiglia, vedendo la quale si poteva pensare che in Brianza si usasse il “te” al posto del “tu”, c’è però il rammarico, visto che La compagnia del cigno è patrocinata dal Comune di Milano, di un’occasione persa: quella di mostrare, al posto di grattacieli, vie del centro e monumenti “ereditati”, i risultati del piano periferie sbandierato dal Sindaco Sala durante la campagna elettorale, il punto focale della sua azione a palazzo Marino. Forse ha solamente prevalso la logica di farsi una buona e non una cattiva pubblicità agli occhi dei telespettatori. In fondo in una fiction la realtà la si può anche romanzare.