Siamo dunque arrivati alla denuncia attesa, di chi vede e crede in ciò che vedono i propri occhi. L’innocenza del bambino che avverte, come nella storiella, che “il re è nudo”. Dunque, non posso che allinearmi, come aspirante militante di un piccolo esercito resistente, all’auspicio di Carlo Petrini, per noi tutti Carlin, che – nelle cucine stellate o giù di lì, e non nei tinelli di casa nostra, almeno per ora – invoca più democrazia, più diritti, più umanità.



Siamo dunque all’allarme che aspettavamo. Lo sapevamo da tempo, in molti oso dire. La denuncia è fatta con pudore, ma è risoluta: constatare che il virus del cibo televisivo – urlato, aggressivo, fin comico per chi dispone di stomaco forte – ha portato un attacco diretto, frontale, volgare al cibo in quanto frutto di terra, materia prima, portatore di valore e oggetto culturale. Un attacco a quelli che Carlin e i suoi definiscono da tempo “saperi veri”. Conrad era propenso a credere che le anime delle cose siano più caparbie, tenaci e resilienti (stubborn) delle anime degli uomini. E le cose, nel nostro caso, sono gli alimenti che instancabili ma spossati chef continuano a privare della loro funzione puramente nutritiva, per restituirceli come moneta arroventata di uno scambio insensato tra le loro cucine militarizzate e un’audience televisiva pienamente, definitivamente omologata.



Ma la melanzana sopravvive allo chef, per fortuna diciamo noi. Dove ci si aspetta maggior debolezza, ma anche maggiore domanda, ecco che formidabili direttori di rete affondano la lama del format gastronomico il quale, pretendendo per sé un ruolo didattico, divulgativo, magari narrativo di chissà quale tradizione cuciniera, arriva diretto e senza pudori fin sul sagrato dell’ultima cattedrale rimastaci – il cibo – nel cuore di un’Italia-nazione-alimentare e cerca, riuscendoci, la profanazione.

Cooperazione e non competizione, chiede Petrini. E io aggiungo rispetto e non disprezzo, perché la fragilità dei materiali che trattiamo – dall’alimento all’animo umano, nel teatro fumante delle cucine – è talmente tanta che rischiamo di dover aspettare decenni prima che il pendolo torni indietro, restituendoci del cibo e delle filiere che lo compongono le misure e le conoscenze delle quali oggi siamo sistematicamente privati.



È esattamente così Carlin, il vecchio mondo della cucina, bottega artigiana in cui primeggiava la capacità creativa del cuoco, “primus inter pares”, è oggi diventata una sorta di covo di giovani “incoscienti”, illusi di raggiungere prima o poi una agognata visibilità mediatica che ripaghi la terribile obbedienza a cui sono chiamati. Ogni progresso fa le sue vittime, altro che diritti e umanità. Lo chef, in nome di un profitto senza intralci giuridici, induce questi giovani sognatori a combattere con intensità prima tra di loro e poi contro i robot (di cucina) che sanno produrre sempre più velocemente, più impeccabilmente, senza rivendicazioni salariali, senza lamenti aggressivi, senza pause per i bisogni corporali.

Semplice, l’enorme diffusione dei modelli culturali – aggiornati sui tempi correnti – che trasudano dagli hardware (tv, smartphone e devices vari) arriva tempestivamente ed efficacemente a destinazione, lasciandoci preda di visioni distorte e frammentate. Cibi e cucine televisive – officine di trasformazione senza più nessun controllo di senso – come presenze immateriali eppure pervasive che portano sempre più in basso l’asticella del buonsenso. Qualsiasi pelapatate (massimo rispetto, si intende, ma è per capire) può scavalcarla.

Maestria artigiana, lavoro di squadra, meriti distribuiti con la saggezza orizzontale, intelligentemente e democraticamente versus questi vitelli dorati che, si badi bene, non sono certo i quasi incolpevoli chef che ne indossano le vesti, ma l’idea che le arti e i mestieri di cucina siano facili bersagli per l’ultimo guru del marketing catodico. Robert Reich li chiamerebbe “manipolatori di simboli”. Il format televisivo gastronomico è, alla pari di una melanzana, un prodotto da vendere, ovvio. La pervasività di questa grancassa mediatica sul cibo ha bisogno dei suoi imbonitori e Carlo Cracco – sulla cui professionalità nessuno discute – ne è stato una sorta di apripista, almeno per l’Italia.

Ora, la sua parziale retromarcia non annulla l’effetto – con lui molti altri, va detto – di quelle sfuriate a beneficio di audience, ma va a danno, diciamocelo, di un comparto sensibile e bisognoso di tornare coi piedi per terra… “la gente raramente fa quello in cui crede. Fa quello che è conveniente e poi si pente” (Bob Dylan).

Per noi tutti, seppur minoranza come pare, lo chef è solo un cuoco, il migliore degli artigiani e mai un artista; ed il massimo dei riconoscimenti che gli si può tributare è “maestro”, espressione che a ottant’anni faceva ancora arrossire Gualtiero Marchesi.