In Giappone, da anni, ci sono moltissimi giovani che hanno deciso di vivere chiusi nella loro cameretta. Non ne escono, se non per andare in bagno. Non è che non vanno in giro per le strade, nei locali, a cena con gli amici: non vanno manco fino alla cucina. Si sono sepolti dentro la loro stanza, hanno chiuso le porte al mondo e al prossimo. In questo modo reagiscono all’ottimismo sfrenato dei cosiddetti Millennials, quelli nati e cresciuti con l’arrivo delle nuove tecnologie e di Internet, che hanno spazzato via ogni residuo delle grandi utopie degli anni 60, che contribuiscono a credere che tutto è possibile, che si dedicano con ottimismo al lavoro, hanno voglia di distinguersi e un individualismo sfrenato, sono ottimisti rispetto al futuro grazie all’ambizione, alla competitività e anche grazie a un narcisismo esagerato.
C’è però chi, come i ragazzi giapponesi, non ce la fa a sostenere e l’ansia da prestazione che la società occidentale degli ultimi anni ha reso lo scopo della vita. Essere i migliori, superare il prossimo, e i social hanno dato buona mano: il valore di una persona si giudica dal numero dei follower, dei like ricevuti ai propri post. Se ne hai pochi sei uno sfigato. C’è anche chi si è ucciso per questo.
Il mondo è cambiato in peggio, molto peggio, da quando nel maggio del 68 sui muri di Parigi qualcuno scriveva: siate realisti, chiedete l’impossibile. Allora, negli anni 70, si voleva essere felici ad ogni costo. Come chiedeva Charlie Brown a Linus: “Cosa ti piacerebbe essere da grande? a cui l’amico rispondeva: felice da far schifo”. Poi si è insinuato il dubbio e il cinismo. Questa volta è Linus che dice all’amico: “secondo me tu hai paura di essere felice, Charlie Brown. Non pensi che la felicità ti farebbe bene? Risponde l’amico: Non so… quali sono gli effetti collaterali?”. Charlie Brown è stato il primo cherofobico del mondo: “Penso di aver paura di essere felice perché prima o poi succede qualcosa di brutto”.
Oggi come canta la brava Martina Attili nella canzone omonima presentata a questa edizione di X Factor, c’è la cherofobia, un disturbo psichico, una parola greca che significa più o meno “avversione alla felicità”, “paura della felicità”. Dove la giovane Martina, 17 anni, abbia scoperto questa parola non lo sappiamo, certo è che nella canzone omonima la canta benissimo, con convincente disperazione e angoscia. Peccato che la versione presentata ai provini di X Factor solo voce e piano, sia stata rovinata pesantemente dalla versione in studio per la pubblicazione, con accompagnamento strumentale e soliti trucchetti banali buoni per le radio. Il grido di Martina è andato perso, soffocato. Che lei stessa sia un bluff? Che quelle parole (Come te la spiego tutta la pazienza che ci metto Ma non riesco a vivere senza Qualcosa che mi opprime Che mi indichi la fine Perché ho un cervello che è strafatto di spine Ed il mio cuore è come un fiore Crede ancora nel bene Non sa che i petali cadranno tutti insieme Sarà in quel momento che vorrà scoppiare Mi griderà di smetterla di amare) le stiano state messe in bocca da qualche esperto di marketing che ha fiutato da dove arriva il vento? Può darsi, sappiamo da tempo che tutto ciò che passa in televisione è falso, ma noi Martina dal vivo è sembrata sufficientemente onesta (la canzone l’ha scritta lei).
Cherofobici in fondo lo siamo tutti, lo siamo sempre stati, è nella nostra natura, solo che si fa di tutto per nasconderlo: è la paura che un momento bello prima o poi debba finire, come la vita finisce con la morte. Piuttosto che rischiare di soffrire, preferiamo non essere felici. Per questo ce ne stiamo a casa da soli, evitando gli altri, tanto tutto è destinato a finire. Ma non solo, e questo è interessante: i cherofobici pensano che chi è felice, appagato, sia una persona cattiva. E non hanno tutti i torti: chi si dimostra sempre contento è spesso un bugiardo e uno che ha ottenuto quella apparente felicità imbrogliando, mentendo, accontentandosi. I cherofobici invece non si accontentano. Come si diceva ancora nel 68, “vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso”. E’ l’espressione più realistica della verità del cuore umano: o hai una risposta da darmi che mi riempia il cuore per sempre e non solo per lo spazio di un momento, o lasciami in pace. I cherofobici ci sbattono in faccia la nostra incapacità di “farci felici” da soli.
“La bambina è cresciuta troppo in fretta Tra i muri di una cameretta In cui ha iniziato a stare stretta E ogni volta che qualcosa va come dovrebbe andare Penso di non potercela fare E cerco ogni forma di dolore Mischiata al sangue col sudore E sento il respiro che manca E sento l’ansia che avanza Fatemi uscire da questa benedetta stanza” canta Martina. Chi ha portato una ragazzina di 17 anni a questo urlo? Probabilmente quei figli del 68 che sognavano il mondo e non sono riusciti ad averlo, hanno distillato in giro la loro disillusione. E poi i fautori del “tutto fa schifo, tutti rubano, tutti sono disonesti” gente che adesso troviamo anche al governo, che hanno instillato disillusione e rabbia, lasciando Martina chiusa nella sua cameretta.
A lei e a quelli come lei vale la pena ricordare le parole di Cesare Pavese, seppur d’accordo che la vita è piena di disillusioni, di cadute, di tradimento soprattutto, ma che c’è anche una chiave per uscire da quella camerata: “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire”.