Indro Montanelli sosteneva che poteva reggere una o due canzoni davanti alla televisione durante il festival di Sanremo, ma che tutta una serata gli sarebbe stata fatale. Per la salute, fisica e psichica. Più graffiante e dissacrante Gianni Boncompagni, grande personaggio di radio e televisione, (chi si ricorda “Alto gradimento”?) che sostiene da anni l’abolizione del Festival e invoca, metaforicamente s’intende (almeno spero), un intervento massiccio della polizia durante una serata festivaliera, 40mila uomini almeno, con un arresto di massa e l’applicazione del 41 bis agli spettatori in sala delle prime cinque fila. Confesso di non essere completamente in disaccordo (sempre metaforicamente) con Gianni Boncompagni.
C’è chi ha sempre sostenuto che il festival di Sanremo è una grande manifestazione nazionalpopolare e che chi non lo vede fa solamente lo snob. Ammetto che ci possano essere questi casi, Personalmente sono un figlio dell’immediato dopoguerra e ho dovuto sopportare di tutto: Natalino Otto, Nilla Pizzi, Carla Boni, il Quartetto Cetra e Gioe Sentieri. Fu un incubo “Vecchio scarpone” di Oscar Carboni e addirittura una canzone di tale Tonina Torrielli, detta la “caramellaia” di Novi Ligure. Ho un ricordo del “Blu dipinto di blu” di Domenico Modugno, ma è un’eccezione che conferma la regola di serate di noia mortale, all’insegna del cattivo gusto e del sempiterno politicamente corretto.
Quest’anno il Festival, per un gioco astrale che prevede persino il passaggio di asteroidi nella vicinanza della Terra e la pioggia di meteoriti sugli Urali, è condotto da due “mostri sacri” della televisione nazionalpopolare. Fabio Fazio, un personaggio che potrebbe essere l’emblema dell’”agonia della ragione”, sempre falsamente dimesso, grande ispiratore del più banale senso comune e occhieggiante a una sinistra immaginaria. Poi c’è la nostra Rita Hayworth, in chiave piemontese, la “burrosa”, ma anti-sexy per eccellenza e falsamente ironica Luciana Littizzetto, un insulto all’eros terreno dai tempi dei greci antichi.
Ci sono sempre due aspetti nella storia del Festival di Sanremo. In primis il revival, cioè i vecchi personaggi che hanno partecipato al Festival. Ieri sera si prevedeva, o almeno si aggirava da qualche parte Al Bano, un noto filosofo pugliese. Poi è arrivato anche Pippo Baudo, presentatore già ai tempi di Giuseppe Mazzini, ora probabilmente “clonato” per i tempi di “seconda repubblica”. Il secondo aspetto del Festival è quella della cosiddetta “rottura” politica e culturale. Non si cerchi di interpretare malignamente il termine “rottura”, che ha significati ambigui. Qui si tratta di “rottura” come “salto in avanti”, come modo di cogliere il moderno e il futuro.



Al Festival sono tutti comici, cantanti, uomini di spettacolo politicizzati e impegnati, quindi a sinistra, magari senza saperlo. Poi sono tutti aperti verso il nuovo, qualunque esso sia: il matrimonio tradizionale è quasi un insulto, le battaglie verso una grammatica di vita fuori dagli schemi normali è un fatto del tutto normale e deve essere accettato.
Di fronte a un simile spettacolo è inutile invocare criteri estetici. Qui siamo sempre, anche tra risse politiche e contestazioni varie, alla farsa di quella nobile trasmissione che si faceva negli anni Trenta negli Stati Uniti ( anni di depressione economica ahimè) per radio: “L’ora del dilettante”. Là si trattava solo di dilettantismo di spettacolo, qui siamo al dilettantismo totale: culturale, sociale, politico e anche canoro.

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