Sulla designazione di Piero Cipollone – vicedirettore generale della Banca d’Italia – a membro del comitato esecutivo Bce si è certamente consumato un chiarimento tra poteri, neppure troppo soft. Ma sarebbe scorretto e fuorviante ridurlo a schermaglia personale o partitocratica fra il premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Andrebbe perduta gran parte della complessità del passaggio, fra Italia ed Europa. Questo è parso essenzialmente un ennesimo (e per molti versi fisiologico) aggiustamento dei rapporti di forza – interni ed esterni al sistema-Paese – sul futuro delle grandi scelte di politica e diplomazia economica. E ciò durante uno specifico cambio di stagione: dopo un trentennio in cui – forse non troppo diversamente rispetto ai magistrati – i “banchieri centrali” italiani hanno visto aumentare fortemente la loro pervasività nella governance del Paese.



La premier Giorgia Meloni e il governatore designato della Banca d’Italia Fabio Panetta (in uscita come membro italiano dell’esecutivo Bce e in entrata come membro del consiglio generale) hanno indubbiamente inteso indicare Cipollone come nome di loro chiaro riferimento: ciò che vale del resto per tutti i componenti del board di Francoforte (a cominciare dalla presidente Christine Lagarde, imposta dal presidente francese Emmanuel Macron come erede di Mario Draghi). E fra Palazzo Chigi e Via Nazionale – dove in autunno Panetta subentrerà a Ignazio Visco – c’è sicuramente sintonia di fondo sulla fedeltà italiana alla costruzione europea, ma anche sull’intento di difendere in tutte le sedi europee gli interessi del sistema-Italia in una fase di estrema complessità economico-finanziaria: a cominciare dalle decisioni sul Patto di stabilità Ue.



Nella stanza dei bottoni dell’Eurotower Cipollone interpreterà d’altronde la stessa parte richiesta agli altri cinque membri: perseguire nella massima autonomia possibile le finalità statutarie della banca centrale dell’euro nella politica monetaria. Ma nella governance Bce è chiaro il costante reporting delle decisioni al “consiglione” dei venti governatori: dove Panetta è ora atteso come voce più incisiva rispetto a quella di Visco (che non era mai passato dall’esecutivo e certamente non aveva alcun motivo per disturbare la voce presidenziale di Draghi).

Daniele Franco – ministro dell’Economia con lo stesso Draghi e prima ancora ragioniere generale dello Stato e direttore generale della Banca d’Italia durante il decennio in cui il Pd ha dominato il governo – vanta un profilo professionale inattaccabile. Ma è altresì l’esponente di un’epoca politica chiusa: con il voto del settembre 2022 e l’avvento di un governo politico diverso da quello pilotato da Draghi (o da Mario Monti più di un decennio fa) ma anche da quelli guidati da Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte. Il curriculum di Franco consente certamente oggi a Giorgetti (che è stato suo collega nel gabinetto Draghi) di sostenerne la candidatura per il vertice Bei: un passo forse utile a tenere Franco fra i civil servant a cinque stelle da mobilitare fra i grandi organigrammi Ue piuttosto che a farlo davvero atterrare alla banca di Lussemburgo, dove all’Italia è storicamente riservata una vicepresidenza di peso.



Questo annotato, non è affatto la prima volta che Palazzo Chigi, Mef e altre istituzioni interessate non sono d’accordo su una nomina riguardante la Bce e/o la Banca d’Italia. Anzi: negli annali si alternano ininterrottamente accordi e disaccordi, tutti risolti per via politica e nel rispetto delle regole istituzionali; e tutti significativi nella storia nazionale contemporanea.

Quando Carlo Azeglio Ciampi, nel 1993, lascia il vertice di Via Nazionale per diventare premier tecnico al culmine di Mani pulite, il suo candidato-successore è l’allievo prediletto: il vicedirettore generale Tommaso Padoa-Schioppa, lui pure tecnocrate laico di stretta osservanza Ue (è già stato brillante eurocrate a Bruxelles). Ma avrebbe scavalcato il direttore generale Lamberto Dini, tecnocrate di scuola Fmi (cioè Usa/atlantica), vicino al sette volte premier Dc Giulio Andreotti. Ciampi deve desistere (al Mef, fra l’altro, si è ritrovato un banchiere di area Dc come Piero Barucci) e la mediazione viene trovata sul secondo vicedirettore generale, Antonio Fazio. Un lungo cursus di economista tutto interno a Bankitalia. Un cattolico (come l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’odierno Sergio Mattarella) pensoso su un’Europa a sola trazione monetaria.

Padoa-Schioppa viene successivamente compensato con la presidenza della Consob, per diventare quindi il primo membro italiano dell’esecutivo Bce. È designato dal governo Prodi 1, con Ciampi superministro dell’Economia, già in predicato di salire al Quirinale, a cavallo della nascita dell’euro. Alla scadenza del mandato di “Tps” a Francoforte, nel 2005, a Palazzo Chigi siede Silvio Berlusconi e al Mef Domenico Siniscalco: un tecnico già successore di Draghi alla direzione generale del Tesoro. Sono loro (chiaramente in perfetto accordo) a designare come nuovo membro italiano dell’esecutivo Bce Lorenzo Bini Smaghi: un curriculum misto fra Bankitalia e Tesoro negli anni 90, non catalogabile come insider del ciampismo.

Il presidente uscente della Repubblica è intanto alle prese con ben più gravi questioni fra politica e banca centrale. Via Nazionale è nella tempesta: Fazio è sotto attacco dai mercati e da Bruxelles per l’opposizione alle Opa estere sulle banche italiane. Il governatore finisce nel mirino delle procure e deve dimettersi. Ciampi tiene in tasca il rientrante Padoa-Schioppa come prima carta per un rimpiazzo tecnico-laico, ma non può prescindere dal confronto con il governo. Dal tavolo con Berlusconi spunta così il nome di Mario Draghi. È l’ex direttore generale al Tesoro con lo stesso Ciampi e Prodi e vanta un passaggio in Via Nazionale; ma è soprattutto un banchiere internazionale (nel 2005 è ai vertici di Goldman Sachs a Londra). È un “ciampiano” d’oblige, di cerchio largo, non stretto; e un liberaldemocratico, non un classico “indipendente di sinistra” di Via Nazionale.

Sul pressing per le dimissioni di Fazio si sono intanto consumati prima l’abbandono polemico di Siniscalco al Mef e quindi il ritorno di Giulio Tremonti: in tempo per festeggiare l’uscita di scena di Fazio (di cui Tremonti è stato acerrimo nemico nella battaglia sul “risparmio tradito” in Parmalat e dintorni) ma non per influire sulla successione in Bankitalia. Poche settimane dopo il centrosinistra vince di un soffio le elezioni e a Padoa-Schioppa viene dato il Mef nel Prodi 2. Negli stessi giorni Giorgio Napolitano succede a Ciampi al Quirinale.

La struttura “ciampiana” di Bankitalia – ormai in via di superamento da parte del “draghismo” in definitiva ascesa – viene tacitata con la promozione di Fabrizio Saccomanni a direttore generale (anche il suo nome era sul taccuino di Ciampi: per la successione di Padoa-Schioppa in Bce o per quella di Fazio a Palazzo Koch). Lascia Bankitalia Vincenzo Desario: nominato direttore generale ancora nel 1994, in un altro passaggio non banale. Quando Dini viene chiamato al Mef da Berlusconi dopo la prima vittoria elettorale nel 1994, Desario, capo della vigilanza bancaria, ha la meglio – contro i pronostici  iniziali – grazie all’investitura politica di Pinuccio Tatarella, vicepremier nel Berlusconi 1 in rappresentanza di An, contenitore della destra post-fascista italiana nella “seconda repubblica”, prima che FdI lo diventasse nella terza.

Saccomanni sarà poi protagonista di un altro importante “chiarimento”. Nel 2011 Draghi viene chiamato alla presidenza Bce, su candidatura di Silvio Berlusconi (con Tremonti al Mef poco convinto ma consenziente) pochi mesi prima che la bufera sullo spread italiano costringa il Cavaliere a gettare la spugna. È in questo quadro concitato che si consuma anzitutto un incidente tutto italiano nell’esecutivo Bce. Qui Bini Smaghi non ha ancora completato il suo mandato di otto anni ma deve lasciare di fatto il suo seggio “italiano” a Draghi. Non senza frizioni, soprattutto dopo che Draghi entrante firma insieme a Jean-Claude Trichet uscente la celebre lettera-diktat sull’austerità da adottare in Italia.

In quelle settimane viene decisa anche la successione allo stesso Draghi in Bankitalia. Il neopresidente Bce sostiene – ufficiosamente – la candidatura interna di Saccomanni (che farà poi a tempo a essere ministro dell’Economia nel governo Letta). Tremonti al Mef si sente invece a un passo da una storica rivincita, spingendo Grilli, suo direttore generale. Ancora una volta la mediazione partorisce un terzo nome interno per il governatorato: quello del vicedirettore generale Ignazio Visco. Che viene poi confermato nel 2017 da Gentiloni, anche su spinta di Mattarella, con Piercarlo Padoan al Mef. Sta infuriando la polemica sui dissesti bancari: l’ex premier Renzi è contro la conferma di Visco. Il suo ex ministro Padoan (che verrà poi eletto deputato a Siena, città di Mps) si allinea invece con Palazzo Chigi e Quirinale.

Le ultime puntate. Nel 2011 Andrea Enria – alto funzionario Bankitalia, già junior nel team di Dini – diventa capo dell’Eba, l’originaria autorità di vigilanza bancaria della Ue. Lo candida il governo Berlusconi, ma il suo vero mentore (internazionale) è il governatore Draghi. Quest’ultimo, da neopresidente Bce, ne favorisce la riconferma nel 2015 e quindi l’ascesa alla poltrona strategica di capo della supervisione Bce: tuttora ricoperta da Enria, in scadenza.

Panetta, vicedirettore generale Bankitalia (nominato sotto il governo Monti) e primo rappresentante italiano nell’autonomo consiglio di vigilanza all’Eurotower, diventa direttore generale su proposta di Visco nella primavera 2019, nelle ultime settimane del Conte 1 (con al Mef Giovanni Tria). Ma già in dicembre è chiamato a Francoforte come successore di Draghi nel seggio “italiano” (anche se solo per regola non scritta) nell’esecutivo Bce. Lo designa il Conte 2 (Gualtieri al Mef) e in Via Nazionale gli succede Franco. Che però già un anno dopo viene chiamato al Mef da Draghi, divenuto premier istituzionale.

In trent’anni in Bankitalia si sono succeduti cinque governatori da Ciampi a Panetta (due sono stati poi premier, uno anche titolare del Mef e presidente della Repubblica). Al Mef sono approdati altri tre fra direttori e vicedirettori generali di Via Nazionale, oltre a due direttori generali del Tesoro. Nell’esecutivo Bce si sono alternati cinque membri italiani, da Padoa Schioppa a Cipollone, passando per Draghi presidente. Tutti sono provenuti dalle fila di Bankitalia, anche se Bini Smaghi era in forza al Mef al momento della nomina.

Il lungo “chiarimento” continua. Dal 1960: da quando Guido Carli diventa governatore senza mai essere stato prima in Bankitalia (è stato economista universitario, funzionario del neonato Fmi e ministro centrista). Sarà poi presidente di Confindustria (dopo Gianni Agnelli e su suo input) e ministro del Tesoro in due governi Andreotti (firmò lui per l’Italia il Trattato di Maastricht). Gli succede Paolo Baffi, suo direttore generale per quindici anni: forse il più tecnico e il più laico dei governatori. Quello che viene poi investito dall’attacco più duro della politica: il vicedirettore generale Mario Sarcinelli viene arrestato nel 1979 – del tutto ingiustamente – nel mezzo di uno scontro all’ultimo sangue fra finanza laica (Mediobanca) e “bianca” (Michele Sindona). Baffi non regge: lascia il posto a Ciampi. Di cui sopra.

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