Quello che succede riguarda Gerico, Betlemme, una zona che molti pellegrini hanno visitato nei loro viaggi nei luoghi santi. In Cisgiordania le cose non vanno molto meglio che a Gaza. Anzi, la strategia di Israele sembra la stessa: nei fatti si fa di tutto per allontanare i palestinesi. Un processo, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, che ha preso il via negli anni 70, al quale la comunità internazionale sta assistendo senza andare oltre una condanna formale delle violenze dei coloni che bruciano gli ulivi, delle loro aggressioni alle piccole comunità di pastori, delle continue occupazioni di territorio, delle distruzioni nei campi profughi. Tanto che ora, proprio in Cisgiordania, dove ci sono due milioni e mezzo di palestinesi, vivono 750mila israeliani, sistemati in insediamenti grandi come città.
La guerra a Gaza si accompagna a interventi continui dell’IDF in Cisgiordania e a una strategia aggressiva dei coloni nei confronti dei palestinesi che spesso vengono aggrediti e allontanati dai territori in cui vivono. Ma non si tratta di un fenomeno recente. Che radici ha?
Le colonie sono vere e proprie città, alcune anche di 40-50mila abitanti, con zone industriali, parchi, terreni agricoli: dietro c’è un’idea urbanistica. È una strategia che va avanti dagli anni 70. Le prime colonie hanno avuto il benestare dei governi laburisti, di Shimon Peres. Adesso ci sono 750mila israeliani che vivono nella Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Si dimentica spesso che uno dei politici che riuscì a sconfiggere Netanyahu, Naftali Bennett, è stato leader dei coloni.
Che cosa comporta l’occupazione dei territori da parte di Israele?
Non significa solo l’occupazione militare che stiamo vedendo, o i raid nei campi profughi, ormai vere e proprie città; è qualcosa che incide sulla vita quotidiana, come riferiscono i rapporti di Amnesty, dell’ONU e di altri ancora. Diventa difficile persino arrivare al lavoro, perché bisogna passare un checkpoint, un vero e proprio terminal. Solo a Betlemme ce ne sono tre. Significa che si sono create strade dell’apartheid, in cui ai palestinesi viene vietato l’accesso. La violenza non è solo quella dei coloni che incendiano gli uliveti, che picchiano gli attivisti internazionali che proteggono i palestinesi, o delle forze armate che uccidono bambini che giocano a calcio; ma quella che il più grande architetto israeliano, Eyal Weizman, ha definito architettura dell’occupazione. Un sistema fatto in modo da occupare il territorio e cacciare i palestinesi.
La strategia è la stessa attuata nella Striscia, dove viene abbattuto tutto rendendo impossibile il ritorno dei civili nei luoghi in cui abitavano?
Ciò che stanno tentando di fare a Gaza, in Cisgiordania è più difficile. Il numero di abitanti è lo stesso, due milioni e mezzo di persone, ma lì non c’è Hamas, ci sono fazioni armate composte da ragazzi nel Nord che rispondono alla mancanza di una politica di difesa dei palestinesi a Ramallah. In Cisgiordania c’è l’ANP e il coordinamento della sicurezza con Israele, mai interrotto dal 7 ottobre. È più difficile far passare l’idea che sia necessario mandare via i palestinesi, ma sta succedendo lo stesso. È come una perdita in una condotta d’acqua. I coloni assaltano le piccole comunità di pastori rendendo loro la vita impossibile per mandarli via: così si sono già svuotate decine di realtà.
È l’unico modus operandi dei coloni?
No, c’è anche quello che alcuni giornalisti israeliani hanno definito pogrom. Vicino a Nablus, durante il 2023, all’epoca delle proteste, tanti supermercatini sulla strada per la città sono stati dati alle fiamme dai coloni insieme a decine e decine di macchine. È un Far West in cui non c’è più una vita normale, in cui le forze armate israeliane arrivano fin dentro Ramallah, nel cuore dell’Autorità Nazionale Palestinese, che di autorità non ha più nulla.
Dal 7 ottobre è la norma che l’esercito entri soprattutto nei campi profughi?
Da allora sono 538 i palestinesi di Cisgiordania uccisi, diversi sono ragazzi e ragazzini che hanno perso la vita anche a causa dei cecchini. Sono 9.600 i palestinesi della West Bank nelle carceri israeliane, sottoposti a un regime che viola tutti i diritti umani e civili. Sono gli stessi israeliani a dirlo. C’è una lettera del capo dello Shin Bet Ronen Bar in cui si dice che ci sono 21mila detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, quando ce ne potrebbero stare 14.500. Molti sono in detenzione amministrativa, quindi preventiva, senza accuse, rinnovata ogni 45 giorni. Capire le loro condizioni è difficilissimo anche per la Croce Rossa internazionale.
Diverse fonti parlano anche di torture, ci sono prove?
Ci sono casi conclamati di torture, denunciati non solo dai palestinesi, ma anche da “gole profonde” israeliane che operano nelle carceri. C’è un ultimo caso eclatante, uno dei tanti, quello di un body builder, preso a Betlemme e liberato dopo 9 mesi: è irriconoscibile. È la punta dell’iceberg di una situazione indicata anche dal capo dello Shin Bet nella lettera interna che è stata resa pubblica. Quello dei prigionieri è un dossier importante per i palestinesi, dal 1967 un milione di loro sono stati nelle carceri israeliane, è una situazione che tocca tutti. Dopo il 7 ottobre Ben Gvir ha detto che i reclusi sarebbero stati tenuti alla soglia minima di quello che è permesso: c’è gente che è stata bendata per mesi e ha potuto fare una doccia ogni 50 giorni, legata in modo tale che si è resa necessaria l’amputazione degli arti. Una situazione internazionalmente riconosciuta. Riguarda anziani, donne, pacifisti.
La strategia per la Cisgiordania è di cacciare i palestinesi poco alla volta?
Sì, è la grande paura della Giordania. Come è stato nel 1948. Adesso però sarebbe ancora più destabilizzante, perché c’è un’opinione pubblica che fa sentire la propria voce. Lo si vede da cose piccole, come i boicottaggi. Ad Amman ci sono McDonald’s (che ha fornito pasti all’esercito israeliano) che sono vuoti, lo stesso succede a Starbucks, nei supermercati ci sono etichette che dicono “Questo prodotto è da boicottare, ma tu sei libero di scegliere”. Un modo per esprimere il proprio disagio. In tutto il mondo arabo si comprano sempre meno Pepsi e Coca-Cola e sono nate aziende che producono bevande gassate. Un dettaglio, forse, ma dice anche quanto le persone si stiano opponendo a tutto ciò.
I campi profughi in Cisgiordania sono oggetto di azioni molto pesanti. Qual è la prassi dell’IDF?
Quello che l’IDF sta facendo nei campi profughi, al Nord della Cisgiordania, a Gerico e Hebron, è di arrivare con i bulldozer e distruggere le strade, quindi la rete elettrica, idrica, del gas, distruggere la vita quotidiana. Per la prima volta da vent’anni vengono usati i caccia per bombardare: vuol dire avere una strategia, altrimenti non si spiegherebbe cosa succede tutto intorno a Betlemme, Hebron, Nablus, Jenin, Tulkarem, Ramallah. L’idea è di togliere ai rifugiati palestinesi la casa e l’identità, la rivendicazione dell’identità e della proprietà.
Gli americani hanno annunciato altre sanzioni nei confronti dei coloni e i ministri del G7 hanno condannato la decisione del governo di annettere altri 1.270 ettari; è il più grande intervento del genere dopo gli accordi di Oslo. Sono solo provvedimenti di facciata?
La comunità internazionale non fa niente da decenni. Nel 1997 arrivò Madeleine Albright, segretario di Stato USA, gli israeliani avevano appena espropriato la collina di Jabal Abu Ghneim, tra Betlemme e Gerusalemme. Era arrabbiata con Netanyahu, ma non è cambiato niente. E ormai ci sono 750mila israeliani che vivono fra Cisgiordania e Gerusalemme Est. Cosa vogliamo fare di queste persone? C’è anche una loro storia che continua da decenni. Nessuno ha mai detto loro “Non potete farlo”, anzi, sono state concesse facilitazioni fiscali. La comunità internazionale si è opposta a parole, ma non è andata oltre.
(Paolo Rossetti)
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