Se vuoi la pace prepara la guerra, Si vis pacem, para bellum, è un detto che si fa risalire a Platone, nel tempo ripreso ciclicamente da politici e strateghi militari. Para bellum è diventata una frequentatissima filosofia di deterrenza, resa arcinota perfino da un calibro di proietti, il 9Parabellum, già 9Luger, ossia il 9x19mm, considerato un calibro per armi da guerra e quindi vietato in Italia fino al 2022.



In Medio Oriente il “prerara la guerra” è divenuto “fai la guerra”, una postura che sembra aver abbandonato qualsiasi paravento tipo “se vuoi la pace”, per sposare piuttosto la volontà di colpire il nemico, magari anche sparando il primo colpo. La recente operazione speciale (denominata “Campi estivi”) israeliana in Cisgiordania, concentrata nei territori di Jenin, Tulkarem, Tubas, Nablus e in pochi altri insediamenti, è mirata a stanare ed eliminare i sospetti terroristi mimetizzati nei campi profughi (la stessa Hamas ha confermato l’uccisione di alcuni suoi militanti in queste manovre dell’IDF), dove sembra che negli ultimi tempi sia cresciuta una rete islamico-iraniana di fanatici attivisti, che sarebbero stati pronti a colpire. Ed effettivamente, la rete esisteva davvero, visto che tra i combattenti palestinesi uccisi figura anche Muhammad Jabber, un comandante del Jihad Islamico, il secondo gruppo armato più grande dopo Hamas.



Le IDF (le forze di difesa israeliane) hanno concentrato l’attacco a Tulkarem, in particolare nel campo profughi di Nur Shams, poco fuori dalla città, dove si sono avuti pesanti scontri a fuoco (a conferma della presenza di miliziani armati) e sono morti almeno cinque terroristi. Le manovre sono poi proseguite, tra le condanne palesate da ONU e mezzo mondo e la domanda strisciante che nessuno osa ancora fare apertamente: quale sarà adesso il destino della Cisgiordania, territorio già sufficientemente straziato, conteso, abbandonato?

Basta controllare lo status giuridico e la posizione dei Paesi confinanti: l’area di 5.655 chilometri quadrati, con capitale nominale Gerusalemme (anche se di fatto è Ramallah), è rivendicata come propria dallo Stato di Palestina, ma è sotto controllo misto anche da parte di Israele. Secondo la Palestina si tratta di territorio palestinese parzialmente occupato da Israele, secondo Israele è territorio (chiamato Giudea e Samaria) israeliano, con zone amministrate dai palestinesi. I tre milioni di abitanti (17% ebrei, 8% cristiani, il restante musulmano) parlano l’arabo e l’ebraico, e usano sia il nuovo siclo israeliano che il dinaro giordano.



E da qui non se ne esce: ogni parte in causa invoca “questa terra è la mia terra”, come scriveva Woody Guthrie nella sua autobiografia.

La Cisgiordania (“la parte al di qua del Giordano”), o West Bank (“la sponda occidentale”), comprende il territorio sulla riva occidentale del fiume Giordano, e con Gaza costituisce la regione della Palestina. Fu parte dell’impero ottomano, provincia di Siria. Nel 1920, alla conferenza di Sanremo, dopo la vittoria degli alleati, passò alla sovranità del Mandato britannico di Palestina. Nel 1948 (guerra arabo-israeliana) in parte di quell’ex mandato nacque Israele, mentre la Cisgiordania fu conquistata dall’emirato di Transgiordania e annesso subito dopo al nuovo regno di Giordania. Risale al ’49 l’armistizio che definì i suoi confini. Nominalmente provvisori. Fino al 1967 il territorio fu sotto controllo giordano, ma passò ad Israele dopo la guerra dei sei giorni, anche se la Giordania non vi rinunciò ufficialmente, spalleggiata dall’OLP. I confini definitivi furono stabiliti con l’armistizio di Rodi, che vide il termine dei combattimenti tra Israele e Giordania.

L’attuale controllo misto (israeliano-palesinese) nacque nel 1993, con gli accordi di Oslo. Va detto che in un quasi Paese, dall’enorme densità abitativa (521 ab/km, la media europea si ferma a 120), la presenza israeliana s’è sempre fatta sentire, soprattutto con i coloni, che grazie agli incentivi statali e spinti spesso da motivazioni ideologiche, si sono rincorsi per creare nuovi insediamenti: l’anno scorso si contavano in Cisgiordania 279 colonie israeliane, oggi il numero è salito ad una cifra imprecisata. Ma si parla di circa 700mila coloni, il 10% dell’intera popolazione israeliana.

Si ritorna alla domanda: adesso quale sarà il destino della Cisgiordania? Il ministro degli Esteri israeliano è stato fin troppo chiaro: “Questa è una guerra – ha detto –, e dobbiamo vincerla. L’operazione in corso è finalizzata a smantellare una rete terroristica sostenuta dall’Iran che si sta sviluppando in Cisgiordania. Israele deve affrontare la minaccia esattamente come si affronta l’infrastruttura terroristica a Gaza, compresa l’evacuazione temporanea dei civili palestinesi e ogni altra misura necessaria”. L’operazione è massiccia: manovre così in Cisgiordania non si vedevano da vent’anni, almeno dall’ultima intifada. In risposta Hamas ha invocato il ritorno degli attentati suicidi, con i martiri disposti a morire facendosi saltare in aria in zone affollate di israeliani. Come vent’anni fa.

A quell’epoca, un ex pilota di caccia israeliano, improvvisatosi guida israeliana del nostro tour di giornalisti italiani, ci mise in guardia: state distanti da qualsiasi persona palesemente araba e nervosa, perché potrebbe essere un terrorista imbottito d’esplosivo. Così, il voler prevenire nuovi attacchi ha portato alle manovre israeliane nella West Bank, che sembrano l’osmosi applicata del feroce “metodo Gaza”, cioè la trasformazione del territorio in un cumulo di macerie, ovviamente inospitali e inadatte a qualsiasi forma di sopravvivenza, così da spingere gli abitanti superstiti a penosi esodi verso chissà dove. Una volta sfollato il maggior numero di palestinesi, l’agenda Netanyahu potrebbe vedere l’occupazione definitiva di quelle terre, per una “Great Israel” che la destra di Tel Aviv oggi al governo sogna da tempo.

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