“Energia, verde e mobilità sono i tre pilastri dell’architettura sostenibile, che può ridisegnare le nostre case e le nostre città. E tutti e tre conservano al loro interno la possibilità di sviluppare impresa, di stabilire condizioni migliori di comunità, di innalzare nettamente la qualità di vita e di salute”.
Ecco perché la transizione ecologica non può essere solo imposta o calata dall’alto, ma va vissuta e partecipata attraverso “una grande campagna di sostenibilità orizzontale, diffusa e potente”, tale da “innescare migliori condizioni di vita, produrre paesaggi esteticamente più belli, creare occasioni di lavoro e intensificare le relazioni”. Sarà questo il messaggio che oggi l’architetto Stefano Boeri, presidente della Triennale, lancerà in una delle due lectio introduttive (l’altra toccherà all’economista Partha Dasgupta) che apriranno il convegno “Humana Dimora. Il modello lombardo di sostenibilità come crescita inclusiva del capitale umano, naturale ed economico”, promosso da Fondazione Lombardia per l’ambiente e in programma oggi, dalle 10, a Palazzo Lombardia.
In tutto il mondo cresce sempre più l’attenzione per l’architettura sostenibile. Quanto è importante imboccare questa strada?
E’ importante perché è il riflesso sul territorio di una convinzione: la transizione ecologica non può essere dettata solo da norme o scelte calate dall’alto, ma deve assolutamente essere supportata anche da un grande movimento di trasformazione, che coinvolga nel vivo le scelte di famiglie, imprese e reti di comunità. L’architettura e gli spazi abitati sono quanto di più vicino c’è alla vita quotidiana e alle potenzialità di trasformazione.
In Italia a che punto siamo con l’architettura sostenibile? C’è sensibilità verso questi temi da parte delle pubbliche amministrazioni, delle famiglie e delle imprese?
Credo che una città, un paese, i territori in Italia cominciano a cambiare introducendo dispositivi per energie rinnovabili sui tetti delle case, aumentando le superfici verdi, ripensando l’architettura urbana nel suo rapporto con la mobilità e con l’energia. E’ l’idea di una transizione verde che per forza di cose, se si vuole arrivare in futuro a qualche risultato, deve anche nascere da una spinta dal basso. Ci stiamo lavorando da tempo, abbiamo raggiunto già risultati importanti, ma c’è ancora tanto lavoro da fare.
Che cosa vuol dire per lei architettura sostenibile?
Cinque aspetti fondamentali. Vuol dire innanzitutto un’architettura che produce il meno possibile gas serra, per esempio investendo con decisione sul legno, un materiale che nelle costruzioni evita la produzione di CO2, conservandola al suo interno, dimostrandosi quindi assolutamente idoneo alla scelta sostenibile.
In secondo luogo?
Vuol dire edifici che lavorano con l’energia del sole, quando possibile con l’eolico – ma in Italia si può fare solo in alcune condizioni -, certamente con la geotermia, utilizzando l’acqua del sottosuolo come gradiente, perché in qualche modo riduce i consumi energetici: è un po’ meno calda di quella esterna d’estate e un po’ meno fredda d’inverno.
Terzo punto fondamentale?
Avere la possibilità di conservare e di distribuire l’energia in ogni casa, trasformando le abitazioni in tante piccole centrali di produzione di energia pulita, come già proposto nel 2008 nel manifesto che ho lanciato con Jeremy Rifkin. E grazie all’idrogeno, questo modello oggi è possibile.
E poi?
Il quarto aspetto è la sfida del verde, che assorbe CO2 e polveri sottili, sia quelle del traffico che quelle interne alle case, aumenta la biodiversità delle specie viventi e riduce il calore, che è un problema serissimo delle nostre città.
L’ultimo significato di architettura sostenibile?
È l’accessibilità economica, un aspetto che non vorrei mai dimenticare quando parliamo di questi temi, compresa la dimensione domotica. Finché non costruiremo edifici con queste caratteristiche che non siano accessibili a tutti, ad esempio con il social housing, non avremo mai la possibilità di trasformare questa idea in una proposta praticabile, una grande campagna di sostenibilità orizzontale, diffusa e potente.
Le città di oggi in cosa devono migliorare? Quali sono i “difetti” principali da eliminare?
Non mancano le sfide importanti. Per esempio, occorre restituire a questi grandi agglomerati un’idea di quello che io chiamo “arcipelago urbano”.
Che cosa intende?
Creare rioni, quartieri e borghi con un certo grado di autosufficienza nell’offrire al cittadino servizi essenziali, da quelli sociali e formativi a quelli commerciali e sanitari. Dovremmo tutti riflettere non tanto su un semplice decentramento, ma su un ripensamento profondo, che permetta di rafforzare l’identità, così forte nel nostro paese, di quartieri e borghi storici, che sono via via stati inglobati dalla forte espansione delle metropoli. Nello stesso tempo va però evitato l’isolamento di queste isole dell’arcipelago.
In che modo?
Penso a una città in cui ogni distretto, ogni quartiere abbia a portata di mano i servizi necessari che permettono la vita quotidiana. Ma poi, distribuita nella città, ci devono essere anche delle attività policentriche che guardano all’insieme degli abitanti. Bisogna studiare bene questo equilibrio.
E il mare di questo arcipelago?
E’ rappresentato dai grandi corridoi verdi delle biodiversità e da un sistema di mobilità sostenibile.
Oggi si progettano smart city e forest city: di cosa si tratta? Che vantaggi offrono all’uomo e all’ambiente?
Per me sono sinonimi. La città intelligente non può esistere senza tutto quello che abbiamo detto finora. Non basta avere 5G dappertutto, per distribuire informazioni a tutti. Non si tratta solo di mettere a disposizione dati e scelte fatte, ma di poter interagire, partecipare in modo serio. E’ in gioco un modello di decisione partecipativo.
Per esempio?
Un conto è sapere che nel quartiere della scuola dove porto i miei figli la qualità dell’aria è pessima; ben altro conto è poter partecipare, grazie a un’app o ad altre forme di coinvolgimento digitale, alla promozione, piantumazione e finanziamento di un bosco vicino alla scuola, perché ciò consente ai cittadini, proprio grazie alle informazioni, di prendere parte attivamente e consapevolmente alle decisioni, senza subirle. Questa è per me la città intelligente.
Valorizzare l’ambiente e garantire la massima efficienza delle attività umane nei contesti urbani: sono obiettivi conciliabili?
Lo devono essere per forza. Ma a tal proposito c’è un problema linguistico non trascurabile.
Quale?
Abbiamo purtroppo un vocabolario che associa alla transizione ecologica termini legati alla minaccia: cambiamento climatico, surriscaldamento, riduzione dei consumi… Tutto all’insegna di un’autoflagellazione o di una punizione.
Invece?
Dovremmo cominciare a dire che transizione ecologica vuol dire stare meglio, produrre paesaggi esteticamente più belli, creare occasioni di lavoro, intensificare relazioni di casa, di caseggiato, di quartiere. E’ una direzione di speranza e ai giovani dobbiamo parlare di transizione sostenibile con questo linguaggio.
Lei parteciperà oggi con una lectio introduttiva al convegno di Fondazione Lombardia per l’ambiente in cui si approfondirà il concetto di ecologia integrale proposto da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’. Su quali basi si costruisce un rapporto armonico tra uomo, natura, casa e città?
L’enciclica, l’ho ripetuto tante volte, è stata davvero un testo inaugurale. Nel momento in cui, a un anno dalla CoP21 di Parigi, ancora immersi in una logica di attenzione alla sostenibilità solo come riduzione dell’impatto dell’uomo sulla natura, aver introdotto il concetto di ecologia integrale è stata una rivoluzione culturale molto importante.
Dove sta l’originalità del messaggio di Francesco?
L’ecologia integrale fa capire a tutti che il tema del rapporto uomo-natura non va nella direzione di una deresponsabilizzazione sul ruolo della nostra specie verso il pianeta, bensì è l’opposto, tanto che il Papa parla del pianeta come di un giardino che l’uomo deve coltivare e di cui deve prendersi cura. Siamo richiamati quindi a essere ancora più responsabili del nostro ruolo, che diversamente dal passato non deve concepirsi come al di fuori della dimensione della natura, ma considerando empaticamente le altre specie, in una cornice di coabitazione. La dimensione dell’integralità è stata vista con anticipo anche rispetto alle forme di turbamento che la pandemia ci ha portato e che ci hanno fatto rimettere in discussione il rapporto stesso con la natura.
(Marco Biscella)
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