Lo ius familiae invece che lo ius scholae. La legge attuale sulla cittadinanza agli stranieri funziona e, se proprio la si vuole cambiare, non è necessario neanche ricorrere al referendum: basterebbe introdurre alcune migliorie, concedendo, per esempio, tempi più brevi alle famiglie straniere per diventare italiane a tutti gli effetti. L’idea, spiega Gian Carlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia all’Università di Milano Bicocca, è di favorire il nucleo familiare come veicolo privilegiato di inclusione. L’esperienza, infatti, dimostra che, quando c’è una famiglia, l’integrazione è più veloce: sarebbe sufficiente prenderne atto e ritoccare le norme attuali. I numeri, d’altra parte, dimostrano che già ora non sono poche le persone che ottengono la cittadinanza: nel 2022 sono state oltre 213mila, con percentuali rispetto al totale degli stranieri (4,3%) superiori alla media UE (2,6%), e i nuovi dati che l’Istat renderà noti a breve non dovrebbero descrivere una situazione tanto diversa.
Cosa ci dicono i numeri sulla concessione della cittadinanza agli stranieri rispetto all’iniziativa di referendum che vuole accorciare i tempi per diventare italiani?
La situazione attuale è quella di un Paese che non è avaro di cittadinanza: nel 2022 abbiamo superato i 200mila casi, e nel 2023 saremo probabilmente sullo stesso livello. Avere una frequenza così alta significa che c’è una legge che ha i suoi limiti ma che, evidentemente, sta producendo i suoi effetti. Tra i nuovi cittadini, un terzo (circa 60mila persone) ha meno di 15 anni, italiani ai sensi dell’articolo 14 dell’attuale legge: quando un genitore diventa italiano, lo sono pure i minori che ne sono figli, anche se a 18 anni possono decidere di tornare indietro.
C’è comunque qualcosa da cambiare nelle norme ora in vigore?
Si può discutere la tempistica: qualcuno dice che dieci anni sono tanti, anche se poi non è per tutti così. Si può vedere come abbreviarli. Secondo la legge attuale, tutti i minori diventano cittadini italiani se lo diventa il capofamiglia, e questa logica di destino comune all’interno di un nucleo è un modo per riconoscere il valore di una certa unità familiare. E allora, se proprio vogliamo mettere mano alla legge, possiamo far valere lo ius familiae, tenendo conto che il processo di integrazione di una famiglia è più veloce.
Quindi l’idea è di sostenere e privilegiare la famiglia come autentico veicolo di integrazione?
Se ci sono bambini che vanno a scuola, è molto più facile anche per gli adulti intrattenere relazioni, imparare la lingua e vivere in società. La famiglia aiuta. E allora perché non agevoliamo, quando si parla di tempistica, le situazioni in cui la famiglia, in quanto tale, è riconosciuta come soggetto della cittadinanza? Laddove ci sono le condizioni che segnalano la presenza di un’integrazione, i tempi potrebbero essere adeguatamente ridotti.
Il criterio, quindi, è quello dell’integrazione effettiva?
Quando, come sindaco di Meina, ho organizzato cerimonie per la cittadinanza agli stranieri, ho dovuto far leggere una frase in cui si giura fedeltà alla Repubblica: mi sono capitate situazioni in cui c’era una certa difficoltà anche solo a leggere due righe. Non so se è stata l’emozione, ma dopo dieci anni stupisce che non si riescano a ripetere due parole nella nostra lingua. Di per sé potrebbe non essere niente di grave, ma chi non sa comunicare può non capire cosa c’è scritto su un determinato cartello e come interagire con gli altri. Mettere alla base tutto ciò che determina integrazione e favorire le situazioni in cui l’integrazione è più accelerata potrebbe essere una via per avere soggetti veramente inclusi nella società.
Un modo anche per superare lo ius scholae?
La letteratura dimostra che la presenza di un nucleo familiare con figli aumenta l’integrazione, quindi si potrebbe stabilire che una famiglia straniera con figli abbia diritto a tempi più brevi per la cittadinanza. Alla fine si risolve anche il problema dello ius scholae. Già adesso, d’altra parte, molti bambini diventano automaticamente italiani: se andiamo a vedere gli iscritti nelle scuole, scopriamo, come per incanto, che in certi anni diminuiscono o, per lo meno, aumentano di pochissimo. Succede perché non sono più bambini stranieri, ma sono diventati italiani.
La realtà, quindi, dice altro rispetto alle richieste veicolate con il referendum?
Non si tiene conto che c’è una realtà che rende questa discussione un po’ eccessiva. Basterebbero alcuni ritocchi all’attuale legge. Se introduciamo lo ius scholae, un bambino può diventare italiano mentre il papà e la sorella rimangono cinesi; se la famiglia deve tornare in Cina, uno ha bisogno del passaporto e gli altri no. Nascono situazioni, dove non c’è la doppia cittadinanza, che creano problemi. Per questo è più serio ragionare sull’intera famiglia.
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