Non è stato un anno facile per il popolo di Comunione e Liberazione. Gli interventi del dicastero pontificio per i laici, le dimissioni di don Julián Carrón, la nuova presidenza di Davide Prosperi: tutto è avvenuto a grande velocità e non si può nascondere che in alcune fasi lo smarrimento è spesso diventato la nota dominante di un tempo nuovo e difficile, un tempo che è misteriosamente coinciso con l’anno del centenario, di un anniversario tanto simbolico quanto prezioso come quello della nascita di don Giussani.



Certamente non sono mancate le dinamiche umane, le divisioni, le contrapposizioni e le spinte interne, ma – e questo non va dimenticato – nella povera gente, in quei poveri che hanno incontrato nel carisma il cristianesimo e che hanno giocato la loro vita nella compagnia di CL, la domanda grande di questi mesi non è stata tanto su “quali misure sarebbero state prese” o “quale linea avrebbe prevalso”, quanto su che fine avrebbe fatto quella novità di vita che ha assunto per loro le sembianze storiche del movimento: “E adesso che succederà?”, “Chi si incaricherà di fare eco a quel sobbalzo che ha cambiato il mio modo di essere uomo, padre, prete?”.



Ancora una volta obbedienti, tanti ciellini toccati nel profondo da queste inquietudini, si sono messi in fila per andare dal Papa, impensieriti dalla grigia giornata d’autunno che la data del 15 di ottobre faceva presagire. Poi, però, qualcosa è accaduto. Qualcosa che non è riducibile all’organizzazione dei canti e delle letture, qualcosa che va oltre l’autenticità con cui Davide Prosperi ha introdotto l’incontro con il Pontefice, qualcosa che non si può neppure identificare nel sollievo con cui è stata accolta la presenza sul sagrato di san Pietro di tutti gli attori di questo anno così ricco di sfide.



Il popolo, anzitutto. La comparsa del popolo, esattamente come succedeva nell’Antico testamento, ha come ridestato il senso religioso dei presenti, la percezione di essere davanti a un fatto capace di eccedere ogni umana misura. Un popolo di bambini, ragazzi, giovani, adulti e meno adulti, un popolo che si è ritrovato e si è riconosciuto come tale. Certo non è il popolo di vent’anni fa, molte cose sono cambiate, ma quel popolo – con quel sole – si è imposto più di tutte le analisi.

E poi il Papa. La sua presenza carica di quella grazia che Cristo ha promesso a Pietro, grazia che vivifica e che – d’improvviso – ricongiunge tutti i puntini di un disegno che in molti tornanti è sembrato essere complesso e arduo. Il grazie sincero a don Giussani, il pensiero per don Carrón, la franchezza nel dire che qualcosa in questa storia è da rimettere in moto, la provocazione a non permettere che le divisioni prevalgano: col fare di un padre il Papa non ha risparmiato nulla a chi lo stava ascoltando, non ha fatto sconti o indicato scorciatoie.

E lo ha fatto con tre obiettivi chiari in testa: il primo è il pluralismo. Nel Movimento non c’è una sola sensibilità, ma un insieme di sensibilità che possono e devono convivere; questo è possibile se il carisma sta nella continua tensione tra il ricordare l’incontro con il Mistero “che ci ha condotti fino qui” e il generare continuamente forme nuove con cui ogni uomo o donna del nostro tempo può – oggi – fare lo stesso incontro: in questa dialettica esistenziale si compone ogni dialettica umana e tutte le sensibilità presenti in CL possono trovare casa.

Il secondo obiettivo di Francesco è l’anticlericalismo, inteso non come un’obiezione al comportamento dei presbiteri quanto all’atteggiamento per cui una persona non diventa mai adulta in quanto per far tutto, per giudicare tutto e dire “Io” nelle circostanze, ha sempre bisogno di un capo, della conferma o della spinta di un capo. Il passaggio su don Giussani educatore, capace di generare personalità libere che hanno aderito al cristianesimo in modo personale e creativo, resterà scolpito per anni nella memoria collettiva del Movimento: è la riproposizione senza intellettualismi del rischio educativo, di un metodo pedagogico che è sempre ancora da imparare.

Infine il terzo obiettivo del Pontefice è certamente aiutare il Movimento a comprendere di più il rapporto tra istituzione e carisma, tra il dono – direbbe don Giussani – e l’alveo in cui il dono trova la sua prospettiva e il suo senso. Separare istituzione e carisma conduce l’istituzione al formalismo e il carisma all’autoreferenzialità.

Se questi tre obiettivi resteranno chiari, se la strada sarà questa – lascia intendere il Papa – allora tutto il resto diventerà secondario, l’autorità nel Movimento svolgerà un servizio all’unità e il tempo che si apre si rivelerà come lo spazio in cui il meglio “deve ancora avvenire”.

Le parole di Bergoglio incantano la piazza, riecheggiano qualcosa di antico, quell’inizio forse a volte dimenticato, quei giorni sul mare di Galilea che sembravano così lontani, quei tre scalini del Berchet da cui Giussani iniziò tutto. “È Lui, è il Signore!” disse Giovanni dopo la Resurrezione indicando il Cristo sulla spiaggia che preparava il pasto per i suoi discepoli. E anche stavolta “È Lui!” e ha fatto tutto questo per noi. Non c’è dubbio. Un silenzio grato invade il cuore di tanti.

Era questo il regalo che dal Cielo era stato preparato per questo centenario: la rinascita nell’anno della nascita. Perché non ci abbiamo pensato prima? Si torna a casa, si torna nella storia. Nessuno si ricorda più che sia autunno. Sembra un giorno diverso, il bel giorno. L’inizio di una stagione nuova.

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