Passo marziale, smartphone alla mano, la stessa che vent’anni fa impugnava l’agenda, barbe leggermente trasandate, il giusto per ostentare la dovuta noncuranza, accenti vari, con prevalenza di milanese. Capelli bianchi e pochi bambini.

L’universo ciellino si è riversato come un fiume in piena in piazza San Pietro: passando vagamente compatto attraverso le maglie del colonnato berniniano. Nessuna concessione al glamour, quasi in divisa, uomini e donne, con piumini 100grammi, jeans e magliette sfoderate dopo ore di attesa per rispondere al caldo ottobre romano.



50mila, forse più. Un popolo, educato all’obbedienza che incontra il successore di Pietro, prima ancora che Jorge Mario Bergoglio. Il Papa chiama, la piazza risponde. Perché chi si è giocato l’esistenza su “non può morire, non può finire, la nostra voce che la vita chiede all’Amor”, non molla: ha coltivato la ragione, il metodo, la libertà. Facendo sbagli, parecchi, digressioni, impuntandosi davanti ad ostacoli apparentemente insormontabili, compiendo molti giri per ritornare al punto di partenza. Ordinati, disciplinati, austeri, persino penitenziali in certi accenti, i figli del don Gius hanno aspettato le parole del Papa.



Per capire, innanzitutto. Ciò che forse non è stato spiegato bene: avvicendamenti, riforme statutarie, silenti conflitti, scontri sotto traccia. Eppure ieri ad affollare il colonnato c’erano tutti, memores Domini, innamorati della prima ora, famiglie e dinastie cielline, ritrovati e aderenti dell’ultima ora. Tutti convocati. Tutti pronti ad una reprimenda che non c’è stata. Dopo Davide Prosperi, emozionato e compìto, due sole testimonianze: la memoria, anche eroica del movimento, Rose Busingye e le sue donne ugandesi, fulminate dal Gius in una delle periferie più dimenticate del mondo, e Hassina Houari, il presente multietnico della Milano culla di Comunione e Liberazione. Quella che ha riportato la frase più bella e più vera per definire questa stagione della fraternità. “Grazie agli amici inquieti come me”.



E poi Francesco, che ha fatto Francesco. Chiarezza, paternità, misericordia. E anche severità amorosa. “Mi aspetto di più” ha detto il pontefice, da chi è stato educato alla fede da quel prete brianzolo, geniaccio della fede, padre e maestro per intere generazioni. Uno che è nella “comunione dei santi”. Non sono facili i periodi di transizione, il fondatore non è più una presenza fisica, ci sono “seri problemi” (finalmente qualcuno che ha il coraggio di affermarlo), “divisioni” (sì, ci sono), “un impoverimento nella presenza di un movimento ecclesiale così importante”. “Ma io mi aspetto di più”.

Il Papa si aspetta di più dal popolo di Comunione e Liberazione. È un po’ come quando tornavi a casa con un sei in pagella o litigavi con i tuoi fratelli, e tuo padre ti guardava negli occhi e ti diceva quelle parole che ti scorticavano l’anima più di una sberla: “mi aspetto di più”. “Molto di più”, ha aggiunto Francesco. “La crisi non va ridotta a conflitto”, serve a ricapitolare una storia “fatta di carità, cultura e missione”. E poi il “carisma”, che non va imbottigliato, come disse sette anni fa, ma vissuto originalmente. Non è lui a dover cambiare, ma noi. E ancora l’unità. E poi quel grido “non sprecate tempo”, “per favore, non sprecate tempo”. In contrapposizioni e litigi. Non se ne può sprecare.

Ed è proprio la memoria di mons. Luigi Giussani che deve aiutare, quella sua “passione per l’uomo” e quella per “Cristo” come compimento dell’uomo. Ricordare per generare. Essere umili per non ripetere o irrigidirsi (e il Signore sa quanta rigidità non voluta serpeggia nella Chiesa attuale). Ricordare per tornare in Galilea, il luogo del primo incontro. Ricordare per andare avanti in un mondo sempre più violento e guerriero che spaventa persino il Papa. Essere ancora una compagnia di amici “inquieti”, sempre più inglobante, tanto che neanche il nemico numero uno potrà mai dividerla. “Mi aspetto di più”. La strada è bella. Il popolo di Comunione e Liberazione riprende il cammino.

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