Gli anni 60 sono ricordati come un periodo di proteste politiche e di sperimentazione radicale di nuove esperienze culturali (la rivoluzione sessuale, l’incontro con le religioni orientali, le droghe come esperimenti per allargare l’area della coscienza individuale e collettiva, i diritti civili). Protagonisti ne furono quelli che oggi si definiscono, con un certo disprezzo, i “boomer”, i giovani nati in pieno boom economico. Gli anni ’70, al contrario, sono un periodo di crisi economica e soprattutto disillusione, segnati dalle dimissioni di Richard Nixon con la conseguente perdita di credibilità della politica che dura tutt’oggi e la fine della guerra del Vietnam. Edonismo, narcisismo, individualismo diventano le caratteristiche dei giovani. Definita “Me Generation” dallo scrittore Tom Wolfe, la frase diventata popolare in un momento in cui “autorealizzazione” e “realizzazione di sé” diventano aspirazioni culturali a cui i giovani attribuiscono un’importanza maggiore della responsabilità sociale. Ma non per tutti è così. Le persone più sensibili, i musicisti, in particolare la nuova leva di cantautori, avverte un senso di fragilità opprimente ed esprimono in maniera mirabile il senso di solitudine e di “grande freddo” che si sta impadronendo di loro. Cantano il crollo delle relazioni affettive, l’uso e l’abuso della droga diventata adesso un medicinale per sostenere sé stessi, si guardano smarriti senza trovare una via da percorrere: “Vuoi scrivere canzoni che siano più grandi della vita”, dice Bob Dylan nel suo libro di memorie, “Vuoi dire qualcosa su cose strane che ti sono successe, cose strane che hai visto”.



10. Paul Simon, Paul Simon (1972)

Il primo album dopo la fine dell’avventura con l’amico Art Garfunkel, vede un Paul Simon di basso profilo, quasi low-fi, incentrato sulla sua chitarra. Non mancano i momenti di ricerca, come Duncan che si rifà a musiche peruviane, o la splendida Mother and Child Reunion, uno dei primi esempi di artista bianco che si diletta nel reggae. La latineggiante Me and Julio Down By The Schoolyard in chiave essenzialmente acustica è uno dei più brillanti esempi del cantautore nel descrivere scene e ambientazioni tipicamente newyorchesi, anche drammatiche (droga ed emarginazione). Ma nel resto del disco emerge un senso di perdizione e di isolamento, la dipendenza da psico farmaci e droghe varie (“Sono andato dal mio dottore: mi ha detto Paul, quanto a lungo pensi di poter mantenerti in piedi, per quante notti pensi di poter fare quello che fai, chi stai prendendo in giro?”). Il tono del cantautore è così onesto e realista che nel brano in questione, Run that body down, cita se stesso e l’allora prima moglie, Peg, per nome. Alla fine, quello che era stato uno dei massimi esponenti della generazione anni 60, si trova alle prese con un Paranoia Blues: “Qualunque cosa hai scelto sei destinato a perdere a New York City”.



9. Tom Waits, Closing Time (1973)

L’altra faccia di Los Angeles, opposta a quella delle star del cinema e della musica, raccontata attraverso gli occhi di un perdente, troppo romantico e disilluso per trovare un posto sicuro. Lui è uno di quegli ubriachi per troppo amore non corrisposto che si trascinano da un bar all’altro fino alle luci dell’alba e al momento di chiusura (il “closing time”). Tom Waits è un personaggio della Beat Generation fuori tempo massimo, un solitario per eccellenza, che ha paura di innamorarsi, che canta serenate alla luna e corre su una vecchia automobile con gli occhi arrossati e le luci dei camion che lo accecano. Tra country-rock alla Eagles e jazz after hours, l’esordio di un autore gigantesco.



8. Eric Andersen, Blue River (1972)

Già protagonista della scena del folk revival del Greenwich Village degli anni 60, il cantautore di origine norvegese ne era il rappresentante più intimista e  poetico, fortemente debitore del linguaggio poetico di Baudelaire e Verlaine. Con questo disco entra di forza nella scena del nuovo decennio, raccogliendo una serie di canzoni delicatamente melodiche, fortemente introspettive, meditazioni dal sapore raffinato e dai toni elegantemente country e gospel sulla vita e sulla caducità delle relazioni (“Anche se non sono sempre stato fedele sono sempre stato vero” è la frase che genialmente riassume il concetto di relazioni della Me Generation). Nel brano omonimo, che potrebbe essere uscito da un disco di The Band con la sua solennità biblica, è accompagnato dalla regina della scena, Joni Mitchell.

7. James Taylor, Mud Slide Slim and the Blue Horizon (1971)

Primo artista a pubblicare un disco per la Apple, la casa discografica dei Beatles, non ne ottenne alcun riconoscimento. Ci sarebbero voluti alcuni anni e una brutta dipendenza dall’eroina per portarlo alla notorietà con il disco Sweet Baby James del 1970. Ma è il successivo, questo, a delinearne pienamente la grandezza artistica. Registrato con i migliori esponenti della scena musicale californiana, è la summa dell’artista intimista, piegato su se stesso, tra nostalgia di una infanzia felice e un presente fatto di ombre e depressione. E’ anche il manifesto della liberazione sessuale come era intesa in quel periodo, riassunta magnificamente nella dolcissima You can close your eyes: amore per una notte e addio all’alba. Ma anche della possibilità che la porta sia sempre aperta, nella ripresa della hit dell’amica Carole King, You’ve got a friend. La strada rimane l’unica via di uscita per l’irrequietezza che lo travolge, dicono Highway song e Riding on a railroad, mentre il successo commerciale può ridurre un’anima gentile a una macchina (Hey Mister, That’s Me up on the Jukebox), ma alla fine, Isn’t It Nice to Be Home Again? Anche qui presente l’amica di tutti, Joni Mitchell.

6. Jackson Browne, Late for the Sky (1974)

Voce purissima del sud della California, collaboratore degli Eagles, Jackson Browne fa sua la capacità di empatia e condivisione dei sentimenti più intimi e personali che toccano ogni essere umano. Amore, perdita, dubbi, senso di identità e il vuoto causato dalla perdita degli ideali degli anni 60 emergono in ogni traccia, basate sul suo pianoforte e una accompagnamento essenziale, tipico del periodo storico (“Forse un mondo migliore si sta avvicinando così come facilmente scompare”).  Non a caso Martin Scorsese usa la title track di questo disco per una delle scene più desolanti del suo capolavoro Taxi Driver. Se For a Dancer è una drammatica meditazione sulla morte, Before the Deluge descrive pienamente il fallimento della generazione anni 60 che avrebbe potuto cambiare il mondo ma si è persa nell’edonismo del sesso e delle droghe. Comunque la si metta, è una generazione che ormai “ha fatto tardi per il cielo”.

5. Neil Young, On the Beach (1974)

“Non ve ne rendete conto, ma state tutti pisciando nel vento”. Una frase piena di disprezzo esprime magnificamente il sentimento di quel momento storico. La voce della generazione hippie contro la guerra in Vietnam, quando tutti gli ideali sono caduti, sembra affogare negli incubi di quegli anni: droga, le stragi di Charles Manson, lo scandalo Watergate, il divorzio. Cosa resta a un ex hippie a cui attaccarsi? La disperazione, che si respira a pieni polmoni in uno dei dischi più depressi, ma allo stesso tempo lucidi, autentico manifesto di un momento di transizione che sembra non finire mai: “I tempi migliori stanno arrivando, ma sicuramente ci mettono un sacco” dice. Rabbia, alienazione, nichilismo, disperazione emergono in brani che l’artista sembra faccia anche fatica a cantare: “Tutte le mie foto stanno cadendo dal muro dove le ho appese ieri… Ho bisogno di una folla di persone, ma non posso affrontarle giorno per giorno”. E’ il prezzo del successo. Ma uno squarcio di sole si fa largo nonostante tutto, tra le nuvole, quando sta per piovere.

4. Kris Kristofferson, Kristofferson (1970)

Con lui, la musica country diventa “fuorilegge”, perdendo quell’area di perbenismo e di moralismo che la contraddistingueva. Alcol, sigarette, donne, escapismo, solitudine, turbamento interiore, passioni distruttive, libertà, fallimento e perdita sono la cifra di questo cantautore arrivato dal nulla. Kris Kristofferson si identifica perfettamente con la figura del perdente, affrescando straordinari ritratti e istantanee con la sua voce profonda e un grande senso della melodia: Casey’s Last Ride, Darby’s Castle, Duvalier’s Dream, Sunday morning comin’ down sono tutti momenti vissuti e concepiti al di fuori del mainstream della società. Naturalmente, su tutte la magistrale e cinematografica Me and Bobbie McGhee, inno alla libertà che si conquista solo sulla strada. Da soli.

3. Leonard Cohen, Songs of Leonard Cohen (1967)

Fuori da ogni trend generazionale, il poeta canadese è “oltre”: il suo disco di esordio, inciso a 33 anni, quando molti esauriscono la propria creatività, è tra i più influenti di ogni epoca e segna la strada per tutti, un manuale di come si possa creare il massimo della drammaticità con il minimo necessario di sonorità e accompagnamento. Cantore della malinconia, della solitudine, dell’emarginazione e degli amori persi, Cohen scandaglia il “cuore di tenebra” dell’umanità per cercarne, al fondo, quella ferita da cui passa la luce della redenzione. Sesso, religione, Dio, peccato, redenzione impossibile, morte, salvezza: tutto ruota nel cosmo privato ed elegante di un uomo qualunque, con un dono in più: “Essere nato con il dono di una voce d’oro”. O come dicono le donne, “una voce da camera da letto”.

2. Joni Mitchell, Blue (1971)

Con questo suo quarto album Joni Mitchell ridefinisce e inventa il modello di cantautrice come era concepito fino ad allora. Le canzoni sono ispirate alle rotture dei suoi rapporti affettivi, ma per la prima volta una donna non deve chiedere scusa di niente, anzi. Blue funziona come un intimo diario aperto, consentendo ai suoi colleghi di raggiungere un approccio molto più personale, fino ad allora tenuto nascosto. Ci si mette completamente a nudo qui, e il dolore tocca vertici insostenibili come nella meravigliosa River. Ma Mitchell è donna di mondo, che vola nelle isole greche in Carey o per le strade di Parigi in California. Sobrio e intimo, per la maggior parte solo voce, chitarra o pianoforte, Blue ha aperto un mondo di possibilità sia per lei che per i suoi contemporanei. Il movimento dei cantautori degli anni ’70 molto probabilmente avrebbe preso una direzione diversa se non fosse stato per questo disco, uno dei più grandi album di tutti i tempi e un momento fondamentale per l’apertura di una strada mai più richiusa.

1. Bob Dylan, Blood on the Tracks (1975)

“Se solo Bob Dylan ci desse un altro Blood on the tracks” disse una volta Keith Richards. Dopo aver inventato la figura del cantautore moderno a inizi anni 60, capace di espandere il  repertorio di chi scriveva canzoni alla politica, al sociale, ai rapporti inter generazionali, al cambiamento della società stessa ispirando così tutti coloro che vennero dopo di lui in quel decennio, a inizio anni 70, complice quello che lui stesso avrebbe definito “il mio periodo di amnesia”, Dylan venne superato in curva da una nuova generazione di cantautori. Dylan avrebbe rotto il silenzio solo a fine 1974, con il suo disco personalmente più intenso, allo steso tempo universale nel condividere la maturazione come uomo e tutti i problemi che essa comporta. Nessun disco prima di questo aveva parlato in modo così diretto e allo stesso tempo condivisibile da tutti cosa significa entrare e uscire da una relazione affettiva. C’è molto sangue in questi solchi. Con Blood on the tracks, avrebbe ripreso il ruolo di leader del mondo musicale, lasciandosi tutti dietro, e inaugurando un nuovo modo di concepire la canzone d’autore. Naturalmente, come sempre, non avrebbe mai rifatto un altro Blood on the tracks con buona pace di Keith Richards (ne esistono due versioni perché non soddisfatto della prima, registrata a New York quasi completamente da solo, rifece quasi tutto il disco a Minneapolis. Per chi può interessare, il sottoscritto preferisce la prima: più cruda, più diretta. Più sanguinante).

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI