Non ha scritto molte canzoni Claudio Chieffo nel corso di una carriera cinquantennale, poco più di cento in tutto. Ma il cantautore romagnolo era un artigiano, uno che studiava e curava i dettagli delle sue composizioni, anche per lungo tempo, meglio dei tanti che hanno sfornato grandi quantità di brani molti dei quali francamente inutili.



Le canzoni di Claudio Chieffo sono invece tutte preziose, diario di un cammino intenso e anche travagliato, di un uomo costantemente alla ricerca del significato della vita, capace di interrogarsi senza arrendersi davanti al dolore e alla fatica esistenziale.

In modo un po’ banale si tende a dividere la sua carriera in due parti, quella giovanile, dagli inizi degli anni 60 fino al suo secondo disco (perché anche se molti lo ignorano Chieffo aveva esordito nel lontano 1971), La casa, del 1977. Sono le canzoni che generalmente (e in mondo sbagliato) si definiscono “da chiesa”, perché se è vero che sono state universalmente adottate nelle celebrazioni liturgiche di mezzo mondo, esprimevano già l’inquietudine e la caratura della sua umanità. Erano forse brani più semplici e diretti, meno elaborati, ma non per questo separabili dal corpus della sua produzione. A partire dalla fine degli anni 70 certamente Chieffo ha dato vita a una scrittura più complessa, liricamente e musicalmente, frutto dell’incontro con musicisti apparentemente lontani dal suo mondo, come Mark Harris e David Horowitz per dirne due, è diventato “adulto”, come era giusto che fosse, aprendosi a nuovi percorsi musicali.



Claudio Chieffo, togliendo le appartenenze ideologie e ghettoriali che spesso lo hanno visto intrappolato suo malgrado, è stato e rimane una delle massime voci della canzone d’autore italiana, una voce che non ha mai smesso di interrogare se stessa e gli ascoltatori. In vista della prossima pubblicazione di una nuova antologia (solo su vinile) che racchiuderà il meglio del suo repertorio e dell’ormai prossimo compleanno (Chieffo ne avrebbe compiuti 79) che cade il 9 marzo, anche noi vogliamo fare, come spesso fatto in passato con altri autori di canzoni, una nostra playlist di quelle che ci sembra possa essere una interessante top ten dei suoi brani. A voi fare lo stesso.



10. Canzone degli occhi e del cuore (1980)

Pubblicata sull’atteso, terzo disco del cantautore, uscito nel 1982, questo brano partecipò a un concorso Rai in diretta televisiva che si tenne al Meeting di Rimini, classificandosi secondo. E’ un Chieffo apparentemente diverso dalla precedente produzione, piacevolmente melodico, quasi accattivante (e certamente avrebbe meritato di vincerlo, quel concorso, pensando a chi arrivò primo…) ma che non rinuncia alla cifra umana del suo percorso. E’ il racconto di un dialogo intenso fra due vecchi amici che hanno preso strade diverse, ma che restano accomunati dal desiderio di una vita piena, capace di sorvolare sulle possibili differenze. In sostanza, un abbraccio e uno sguardo che arrivano al cuore.

9. Ballata dell’amore vero (1969)

A tempo di valzer, Chieffo rivela sin da giovane il grande legame con il patrimonio della musica popolare italiana. Un brano apparentemente semplice, con molto in comune con quanto faceva Fabrizio De André in quel periodo, esprime in modo magistrale la consapevolezza dell’IO dell’autore, che si riconosce fragile, incapace, “piccolo come un bambino”. L’amore per la sua donna, dice, “è fragile come un fiore”. Ma nella vita di Chieffo c’è qualcosa in più, che dà la possibilità di sperare: “Io ti voglio bene e ne ringrazio Dio che mi dà la tenerezza, che mi dà la forza, che mi dà la libertà che non ho io”.

8. La nuova Auschwitz (1967)

Contemporaneamente, ignorando l’esistenza uno dell’altro, Claudio Chieffo e Francesco Guccini agli albori del 68 scrivono un brano sul medesimo tema, la tragedia dello sterminio del popolo ebraico e in generale sull’orrore della guerra e della violenza dell’uomo sull’uomo. Ma se il secondo si sofferma sul male inestinguibile che continua a ripetersi e chiede senza molta fiducia “quando l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare”, il primo dà una risposta coraggiosa e inequivocabile: autore del male non è un altro, ma siamo noi stessi: “Ora siamo tornati ad Auschwitz dove c’è stato fatto tanto male, ma non è morto il male nel mondo e noi tutti lo possiamo fare”. Chieffo ha un’altra visione della politica. Non abbattere e incriminare altri: se non comincia da noi, il bene non si costruisce.

7. Canzone del melograno (2003)

Dedicata a Giorgio Gaber in occasione della sua prematura scomparsa, è una magnifica e intensa ballata pianistica di grandissimo spessore. Torna un tema sempre caro a Chieffo: la casa, intesa come punto di arrivo dell’esistenza, un luogo di accoglienza, insomma il Paradiso. Nella casa c’è un giardino nascosto “che nessuno può immaginare” e c’è anche la madre del cantante, “il sole e la brezza di sera ti fa sentire il mare”. Meravigliosa.

6. Confine (1994)

Un’altra maestosa ballata pianistica, dall’incedere melodico appassionante. Dedicata all’amico Luigi Giussani, descrive in modo poetico e delicato l’ansia esistenziale di ogni uomo, quel senso di nostalgia e malinconia inspiegabili della sera, “quando i marinai ritornano col cuore nelle case”. Quel senso di smarrimento dell’uomo davanti all’infinito panorama del mare che si può cogliere solo con “occhi da bambino”.

5. Il seme (1964)

Una delle prime composizioni di Chieffo, dedicata alla futura moglie Marta, mostra anche questa volta lo stretto legame con la tradizione popolare del cantautore. Il seme che il protagonista attende ansiosamente che maturi è il compimento dell’amore per la sua amata, una bellissima dichiarazione di attesa e non di possesso nel rapporto affettivo, attuale più che mai.

4. Liberazione n. 2 (1973)

Uno dei vertici delle capacità melodiche di Claudio Chieffo, questa apparentemente malinconica ballata è uno dei vertici del cantautore. Davanti alla constatazione di una “vita vuota” a cui non bastano per sentirsi in pace con se stessi “un libro o una canzone o un amore di donna”, così come il coraggioso rifiuto (soprattutto in quel periodo storico) “della politica idiota”. Dedicata alla moglie Marta, il cantautore riflette ancora una volta sulla libertà dell’amore (“questo amore strano è nato come un figlio che nessuno ha aspettato”). Cosa resta? Dio: “Tu solo puoi riempire il vuoto della mia mente”.

3. Stella del mattino (1992)

Accusato sbrigativamente da qualcuno di non scrivere più “preghiere”, Chieffo risponde in età adulta con la sua preghiera più affascinante e riuscita. Una Ave Maria corale e maestosa che racchiude tutta la ricchezza del canto liturgico del passato. Chieffo, alle porte del Terzo Millennio, ridà onore e dignità a quel patrimonio, in questo modo apparendo come il più grande compositore moderno di preghiere liturgiche. Commovente la versione recitata che ne ha fatto Giovanna Marini nel disco tributo.

2. La guerra (1971)

Il brano più intimo e confessionale di Claudio Chieffo. Per atmosfere musicali e liriche ricorda certe cose ugualmente malinconiche di Francesco Guccini. E’ una confessione povera e allo stesso tempo coraggiosa del senso di sconfitta che si prova davanti alle fatiche e alle ambizioni della vita: l’impegno politico, l’illusione di costruire da sé il proprio destino. Di tutti questi sforzi all’autore rimangono solo inganni, “terra bruciata”, viltà, “nomi senza perché”. E’ un brano lancinante che si conclude con il riconoscimento che “con le mie mani non potrò mai fare giustizia”. Alla fine, “resta solo il rimpianto di un giorno sprecato e forse l’attesa di Te”. Stupenda.

1. Padre (1971)

Maestosa e terrificante, un brano così bello che non a caso il premio Oscar Markéta Irglová lo ha scelto per il disco tributo a Chieffo di pochi anni fa. Giocato su una melodia bellissima in crescendo, il testo narra una intera esistenza, dal concepimento alla giovinezza all’età adulta, con tutti gli aspetti della vita, dalla gioia al dolore fino alla morte. E qui Chieffo si fa così audace e profondo da narrare l’inenarrabile, il momento del trapasso, quando Dio accoglie la persona morta e svela il Suo volto: “Tutto si compie ora, ora qui non esiste più il buio”. Epica.

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