La prima cosa che balza all’occhio, aprendo il bel libretto dell’elegante confezione che accompagna il nuovo disco di Claudio Sanfilippo, è l’elenco impressionante di chitarre che vi suono suonate. Invece che al posto dove normalmente sono elencati i musicisti, ecco, per dirne qualcuna, una Classica Baritone Fabio Zontini, una Martin d18, altre due Martin, la d35 e la 00028vs 2008 (tutte e due del 1971) e ancora una Gibson lg2 Americana Eagle. E altre ancora.
Sono loro, insieme alla voce di Claudio Sanfilippo, i “musicisti” di questo disco, Boxe, ultimo capitolo della corposa discografia del cantautore milanese, Targa Tenco nel 1996 come miglior opera prima con il disco Stile libero. E poi canzoni scritte per Mina, Eugenio Finardi e tanti altri.
Con Boxe Sanfilippo dichiara forte il suo amore per questo strumento, che lo ha accompagnato dai tempi in cui, ragazzo, amava il songwriting anglo-americano, da James Taylor a John Martin (approccio musicale che ritroviamo nell’eccellente fingerpicking di Gli occhi degli animali) per poi evolversi con la musica brasiliana e il jazz. Ma anche il cantautorato italiano dei tempi migliori, De Gregori, De André e Jannacci su tutti. i cui echi si colgono sottintesi qua e là in queste canzoni.
Boxe raccoglie 14 brani, composti tra il 1981 e il 2017, rimasti fuori dai suoi dischi per ragioni che solo l’autore sa, ma che non sono “scarti”, come si dice nell’ambiente. Avrebbero potuto figurare benissimo in ognuno di essi, tanto sono belli. E poi c’è la sua voce, mai così intensa, noir, calda e ispirata, che lo si potrebbe definire il Leonard Cohen dei Navigli.
Sanfilippo, come dice lui stesso, non scrive storie o cronache più o meno autografe, come fanno quasi tutti. Descrive immagini, a volte sfuggenti, a volte note solo a lui, come fanno i poeti, suggerendo luoghi, sentimenti e ambientazioni senza un messaggio preciso. E’ quello che fanno i grandi autori di canzoni, che lasciano libero l’ascoltatore di interpretarle e viverle come meglio preferisce. E’ la bellezza della musica, che non si impone, ma accompagna.
La title track, che apre il disco, è forse il brano dal significato più evidente, visto che parla del padre morto alcuni anni fa, e certe sensazioni emergono inevitabilmente, sfondi, parole sussurrate, oggetti lontani nel tempo, un vaso, un piatto di aringhe, i tram che non passano, ricordi e momenti familiari. La chitarra è un eco in lontananza, a suggerire queste visioni di commosso ricordo.
Da un brano recente a uno che appartiene a un secolo fa, Grandi comici, del 1982, dove spicca la chitarra baritono costruita dal liutaio milanese Fabio Zontini, che esalta le atmosfere notturne alla Daniel Lanois. E’ una riflessione intima, quella di una generazione che ha vissuto impeti di cuore e adesso cerca di stare a galla e dove la saudade brasiliana detta il tempo della mestizia.
La musica brasiliana, emerge seppure sottovena anche in brani come Nuvola rosa, una dolce ninna nanna, di cui esiste una versione fatta da Rinaldo Donati per un suo disco intitolato Vagalume, dove è diventata “Bossa na hora”, così come Come una storia vera, altro brano rimasto nei cassetti per un trentennio addirittura, un Brasile diverso da quello della bossanova, più vicino a Milton Nascimento o a Jobim.
L’angelo, accordatura aperta e chitarra acustica, richiama quel jazz folk caro a personaggi come David Crosby, è un blues, anche se non sembrerebbe tanto l’approccio è filtrato dalla personalissima visione musicale di Sanfilippo che dice rappresentare “la nostra parte spirituale, quella che non vediamo ma che possiamo sentire”. Stesso sound si ritrova anche ne Gli occhi degli animali. Molto bella è anche La terra che c’è in me, con reminiscenze del primo De André.
Unico brano non originale è la conclusiva Piscinin, versione in dialetto milanese del classico americano Little Man You Had a Busy Day, un brano degli anni 30 inciso nel corso degli anni da nomi come Bing Crosby, Perry Como e anche Eric Clapton.
Un disco notturno, da gustare come una buona grappa e un buon sigaro, per sognare la vita e vedere cose che ai più sfuggono. Come un vecchio frack, portato via dalle acque dei Navigli invece che dalla Senna. Perché la poesia appartiene agli uomini di ogni latitudine.